Karl Popper (1902-1994) era uno strenuo difensore della libertà ed era un fiero avversario ad ogni forma di totalitarismo.
Egli attribuiva alla televisione la capacità di agire in maniera inconscia sul pubblico, imponendo modelli di riferimento e gusti individuali e spingendolo ad adeguarsi in modo passivo a certi standard di opinione e di comportamento.
Quindi una sorta di totalitarismo televisivo sostituito oggi da Facebook.
Non per nulla, nei programmi televisivi, in generale viene invitata una sola persona che ha un pensiero divergente rispetto agli altri ospiti e viene generalmente massacrato tra il godimento di chi ascolta.
E accade anche sui social.
Non di meno il grande pensatore de noantri, il semiologo Umberto Eco (1936-2016) ebbe ad affermare che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
E se scrivo anche io forse tutto questo torto Eco non lo aveva.
Il problema, infatti, nasce con l’uso smodato dei social laddove ognuno può dire la sua con buona pace di Basaglia e decretandone il suo fallimento quando ci si accorge che anche la persona meno colta o meno accorta – decidete voi – si sente in dovere di esternare il suo pensiero su tutto, in funzione di un like messo, invece, a caso con il risultato che dovrebbero essere riaperti i manicomi.
Inutile dire che siamo un popolo di 60 milioni di meteorologi, allenatori di calcio, di presidenti del Consiglio e chi più ne ha più ne metta e il tutto intervallato – spesso e alla faccia della parità dei sessi – da tette poderose e sederi che sono patrimonio Unesco.
Perché Facebook – non ricordo chi lo disse – è sostanzialmente un ruttodromo.
Si è passati da una dipendenza (la televisione) ad un’altra (i social) e ne viene svilito il confronto fonetico in presenza dal momento che, quando ci si interfaccia con una persona reale, emerge spesso la quintessenza di quello che si è: imbecilli ignoranti.
La via del male era cominciata quando sono iniziati a girare gli e-book che hanno tolto quella linfa vitale che era il profumo e il fruscio di una pagina di carta con il risultato che mi accade sovente di avere miei conoscenti che si disfanno della loro biblioteca a prezzi stracciati e da me considerati dei folli.
Certo che Andy Warhol (1928-1987) aveva visto lungo quando affermò che 15 minuti di celebrità non si negavano a nessuno, convinti di raggiungere la fama eterna, ma non aveva previsto che con l’avvento dei social e degli influencer, il suo aforisma si sarebbe avverato.
L’uso dei social quindi come mezzo inusuale, ma costante della comunicazione che svilisce irrimediabilmente il concetto di logos (λόγος) e di conoscenza anche dell’altro.
Sembra che ci si siano accorciate le distanze che, invece, rimangono incolmabili.
Ad esempio: è morto Gianluca Vialli – il noto calciatore – e cosa fanno i miei connazionali?
Scrivono Ciao Gianluca, mi mancherai, quasi si conoscessero realmente, ma sfociando nel ridicolo.
Si è perso, quindi, il senso della misura e della riservatezza.
Si scrive del proprio stato di salute o di un lutto togliendo a entrambe le faccende quella sacralità misteriosa non tanto per condividere un percorso, quanto per il recondito motivo di suscitare l’attenzione del follower di turno che raramente sfocia in compassione, dal momento che il giorno dopo tutto è finito.
Mentre il dolore continua a galoppare silente e solo.
Questo comporta inevitabilmente una amplificazione della solitudine che, invece, viene pilotata come pensiero unico e mal gestito, perché l’amico fidato non è più una persona in carne ed ossa, ma Facebook con tutti i limiti ad esso connessi.
Si arriva, quindi, a pensare allo stesso modo politicamente corretto e con la censura fascistissima di Facebook stesso quando ritiene che qualcuno sia andato fuori dal seminato, dimenticando che è un social americano che incarna lo spirito dei Pilgrim Fathers puritani.
Li chiamano social, ma di sociale hanno ben poco perché sono lo strumento maldestro e spesso maleducato per esprimere – in maniera narcisistica quando ogni giorno si cambia la foto del profilo credendosi piacenti, ma in realtà orribili – la propria presenza nella società laddove non verrebbe altrimenti notata.
Un veicolo che sembra fornisca libertà quando in realtà è un mezzo di coercizione pilotato sul vecchio detto panem et circenses.
Un argomento che rimbalza per giorni, come ad esempio la fine della storia di amore tra Ilary e Totti.
E stupidi a leggere, ma ancor più chi ne scrive.
Quindi Popper aveva ragione, anche se lui parlava di televisione, ma avendo centrato il drammatico problema, ribadito da Umberto Eco.
E spesso Facebook è complice per immaginarie storie d’amore sulla base di tre like consecutivi da parte della bona/del bono di turno che si degna di attenzione quando in realtà – appena si incontrano e se si incontrano – non riescono nemmeno ad offrirsi un caffè come gesto di minimo sindacale di cavalleria.
Ma poi ci sono gli incidenti di percorso che dovrebbero far riflettere: se Alberto Angela è ancora seguitissimo e fa il massimo dello share, sui social cominciano ad affacciarsi timidamente pagine interessanti sugli argomenti più disparati dove – guarda caso – l’imbecille di turno rimane muto.
Questo è forse il futuro cioè “obbedire il meno possibile, senza essere ribelle” come auspicava Joseph Marie de Maistre.
Quindi non si tratta di essere ribelli, ma liberi nel pensiero.
Impossibile.