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Desiderio di vette, ovvero della smania di fuga

Un recente sondaggio ha certificato che tre italiani su dieci andrebbero a vivere volentieri in quota in qualche malga o casolare e ulteriori due italiani su dieci lo farebbero volentieri.

In pratica 5 italiani su dieci si toglierebbero volentieri dalle palle.

Tale sondaggio offre lo spunto per una considerazione interessante.

Il sondaggio sarebbe anche una traccia potabile per un racconto di Pirandello che forse, meglio di altri, ha saputo cogliere le controversie dell’animo umano di un Italiano scavando negli abissi dell’io incompiuto e in fase di elaborazione.

Molti sono gli autori che si sono cimentati a scrivere di montagne e sul valore della stessa e tutti hanno accomunato la montagna a qualcosa che dal metafisico diventa spirito puro.

Da meditazione delle vette di Evola a Barnabò delle montagne di Dino Buzzati ,e passando per l’esistenzialista Emil Cioran, c’è sempre stato negli scrittori un richiamo irresistibile verso la montagna e ciò che rappresenta per l’uomo moderno: il distacco dalla civiltà industriale per il riappropriarsi di un tempo lento scandito dalle stagioni.

La gioia delle cose piccole parafrasando monsignor Escrivà de Balaguer, il fondatore della massoneria bianca che è l’Opus Dei.

Ma partiamo da quest’ultimo assunto che è valido per tutte le stagioni ed è il volano di lettura per capire l’essenza della vita e le sue gioie, cioè ciò che i grandi mistici dell’Islam, i maestri Sufi, attuavano con l’eliminazione del superfluo.

Perché di questo si tratta.

Nell’immaginario collettivo la montagna è ben altro e non ha quel rispetto che merita da parte di tutti, in considerazione che – tanto per cominciare – l’omino medio italiano se fa un sentiero di montagna segnalato dal CAI e andandoci con le espadrillas, si sente una via di mezzo tra Ambrogio Fogar e Reinhold Messner.

Se poi incontra anche qualche Pieve, anche Folco Quilici.

E la montagna perde il suo carattere ascetico verso la vetta e tale ascetismo è sintetizzato dalla frase micidiale di Walter Bonatti: si conquista l’uomo non la vetta.

È comunque un desiderio nuovo di evasione dei miei connazionali dal vorticoso hellzapoppin del vivere in città con ritmi sfrenati e con il drammatico obbligo di interfacciarsi con qualcuno quando invece gli si sparerebbe volentieri.

È estrema libertà che cozza con l’amara presa di coscienza che in realtà la montagna è sacrificio e durezza che tempera i caratteri, cosa che ben sanno i nostri alpini e valligiani.

In questo viaggio di sogni verso l’ignoto del tempo, l’italiano medio pensa alla montagna come alpeggi, fiori, stambecchi, caprioli, daini, lepri e ovini con cui fare il formaggio da rivendere a qualche escursionista di passaggio.

In realtà, almeno qui nell’appennino Umbro Marchigiano, la montagna è cinghiali e pecore allevate con sacrifici inumani da pastori che devono anche sapere come funziona la normativa europea per avere i contributi e non morire di fame e di stanchezza.

E non per nulla spesso si incontrano pastori rumeni o macedoni, forgiati nell’acciaio.

Poi c’è il problema atavico delle strade: dalle nostre parti sono di polvere e sassi e ci si gioca le sospensioni e le gomme della nostra macchina pagando una politica scellerata di disumanizzazione antropica delle montagne stesse a favore di una urbanizzazione violenta che mortifica il territorio e l’uomo.

È una idealizzazione della montagna che cozza con il modo di vivere dell’italiano medio, ma comunque – ad essere benevoli – il sondaggio è l’indice che qualcosa sta cambiando nella società edonistica che ci attanaglia con una ipotetica riscoperta del camminare lento.

Infatti per motivi economici, ci sono giovani coppie sposate che iniziano ad andare a vivere nelle frazioni adiacenti le nostre città umbre perché la vita è più a misura d’uomo e l’unico bar del paese assume una importanza strategica per il dialogo anche rurale in cui si discute anche delle cose piccole di Escrivà.

Quindi è l’eterno dilemma se l’andare a vivere in montagna sia una esigenza di non venire più assorbiti dalla frenesia della città o è una ricerca di introspezione per la maturazione del proprio spirito per arrivare, in buona sostanza , a non avere rotture di palle nel prosieguo di vita.

Perché’ l’italiano medio è anarchico dentro e bastian contrario a prescindere.

Non è una passeggiata di salute vivere in montagna come invece ritengono i miei connazionali e dimenticando che il sondaggio è stato effettuato prendendo a parametro le grandi metropoli italiane, risultando un sondaggio falsato in considerazione che se anche io abitassi sulla tangenziale est di Milano o sul grande raccordo anulare di Roma, avrei questa esigenza di rompere la ruotine fatta dell’abbrutimento delle grandi periferie.

Gli italiani amano i grandi proclami e si entusiasmano per poco e i primi segnali di ciò è stato quando mascellone parlava dal balcone di Piazza Venezia a Roma sul finire degli anni ‘30 del secolo scorso.

Un esempio è Umberto Boccioni, il pittore futurista che aderì al manifesto di Tommaso Marinetti che sancì guerra sola igiene al mondo, che ebbe a dire invece che la guerra era polvere ed insetti perché la vita di trincea era un tantino difficile e svilendo il grande proclama accarezzandone il paradosso.

Ne consegue che questo afflato di desiderio di andare a vivere in montagna sfocia nel ridicolo ed è segno inequivocabile che gli italiani amano la montagna nella misura in cui arrivano più vicini alla vetta(non tutti grazie a Dio) a mezzo di fuoristrada che feriscono i prati.

Disattendono quello che vidi scritto anni fa sotto il rifugio del Lagazuoi nelle Tofane nel Cadore: chi ama la montagna le lascia i suoi fiori.

Leggessero, i miei connazionali, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro o Con me e con gli alpini di Piero Jahier e poi rifacessero il sondaggio.

Benedirebbero la tangenziale est o il grande raccordo anulare.

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