Intervista all’autrice e regista dello spettacolo “Si chiamava Donatella come me” che smaschera l’ipocrisia della parità
Il femminicidio del 1975, con la successiva battaglia per i diritti delle donne, è divenuto un simbolo alla violenza di genere. “Si chiamava Donatella come me”, rappresentazione teatrale che racconta Donatella Colasanti, vittima con Rosaria Lopez, che ne morì, del massacro del Circeo, in scena fino a domani al Teatro dei Documenti, propone un immaginario dialogo tra le due Donatella, interpretate dalla stessa Mei, che è accompagnata dalle voci di Francesca La Scala, Pietro Faiella e Alimberto Torre. Particolarmente adatto alle giovani generazioni, la programmazione prevede anche matinée (dal 15 al 21 gennaio) per le scolaresche. Un viaggio introspettivo nell’anima della protagonista in cui ogni tappa è documentata dalla storia giudiziaria, dal continuo confronto tra realtà e poesia, dalle voci dei tre colpevoli Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira (fu in una villa di proprietà di quest’ultimo che, col pretesto di una festa, le due ragazze furono torturate; ricordiamo che Donatella Colasanti si salvò solo perché riuscì a fingersi morta). Spettacolo di denuncia e riflessione, quindi, per analizzare un passato che ritorna e comprendere le radici culturali che ci impediscono di superarlo. Lo spettacolo è dedicato non solo a Donatella e Rosaria, ma anche a Maria Carmela e Valentina (moglie e figlia di un pentito della Sacra Corona Unita che Izzo aveva conosciuto in carcere a Campobasso e che lui uccise nell’aprile del 2005 a Ferrazzano) e a tutte le donne vittime di violenza.
Donatella qual è la genesi di questo spettacolo così toccante?
“Ho iniziato a scriverlo tra il 2009 ed il 2010, dopo l’uscita di Gianni Guido dal carcere (ndr, avvenuta il 25 agosto 2009; la pena fu ridotta a 30 anni di reclusione per aver mostrato pentimento ed aver risarcito la famiglia Lopez con 100 milioni di lire). L’ho messo in scena nel novembre 2011 proprio nel Teatro dei Documenti grazie al prezioso contributo di Anna Ceravolo. Sono contenta sia tornato qui. Nel 2015, a quarant’anni dal fattaccio, è arrivato anche a Latina, nella città dove si svolse il processo. Organizzato dall’associazione femminista “Lilith” l’ho interpretato in un’aula magna di un liceo”.
Dal 2011 ad oggi cosa è cambiato a livello di rappresentazione scenica?
“Svariate cose. Lo spettacolo è ambientato in un’aula di tribunale molto rarefatta, ma mentre prima nell’incipit ero fuori scena ora sono già in scena, nascosta sotto una coperta. Poi sono vestita in modo diverso: prima ero stile anni ‘70, ora indosso un vestito rosso attillato. La trovata delle poesie di Donatella Colasanti che scendono dal soffitto è attuale. Interpreto sia le sue (si firmava con lo pseudonimo di Donatella Del Greco) che una mia senza titolo ma che possiamo chiamare “Posso aspettare altri anni” (leggo le sue a memoria, mentre la mia al leggìo, esattamente il contrario di come facevo precedentemente). Il titolo originario era ‘L’importanza di Donatella’, ma avendo generato incomprensione tra il pubblico, l’ho dovuto modificare”.
A parte il nome che vi accomuna quali sono le altre similitudini con lei come donna e come poetessa?
“La notizia della sua morte è stata un trauma, forse proprio perché mi identificavo in lei totalmente. Ho sentito dentro di me la necessità di darle voce in qualche modo. Non solo il nome ci accomuna. Siamo nate lo stesso anno (io sono di gennaio, lei di maggio), proveniamo entrambe dalla periferia romana (anche se non siamo della medesima zona) e ci unisce la volontà di diventare poetesse e di lavorare in teatro. A livello poetico però siamo lontane. Lei ha uno stile ermetico. Leggere i suoi versi mi ha aiutato a capirla meglio e a immaginare cosa le è cambiato dentro, dopo la violenza. La Colasanti ha rasentato la follia, perché come dice l’avvocato Tina Lagostena Bassi chi è stata la più sfortunata tra Rosalia e Donatella è proprio quest’ultima, perché sopravvivere ad un orrore del genere è inimmaginabile”.
Tratta l’argomento della violenza con delicata incisività. Ho apprezzato anche la presenza di una punta d’ironia, cifra stilistica della sua arte, essendo lei un’artista brillante. Quando l’ironia l’ha salvata nella vita?
“In effetti mi ha sempre accompagnato ed aiutato, in particolare nel periodo adolescenziale. Tra i tredici e i quattordici anni ho attraversato forse il periodo più buio. Tra i ricordi felici mi vengono in mente dei flash in cui facevo il clown a scuola. Per fortuna l’ironia fa proprio parte di me”.
Si è letta tutte le carte processuali. Quale cosa le ha dato più fastidio? E perché ci è voluto tanto tempo per la legge contro lo stupro (del 1996, esattamente venti anni dopo la fine del processo, avvenuto nel 1976), considerato finalmente non più reato contro la morale ma contro la persona?
“Tutto è stato rivoltante. Se pensiamo che Ghira non si è fatto nemmeno un giorno di galera! Il ritardo è dovuto ad una cultura maschilista dura a morire, in cui le donne sono trattate come oggetti senza dignità. La misoginia (anche quella non necessariamente sessuale) è sottile e diffusa in tutti gli ambienti lavorativi, compreso il mio dove i festival della comicità sono prettamente maschili e i testi per le donne vengono scritti da uomini”.
Goethe scriveva che “chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza”. Di che cosa erano mancanti i colpevoli di questo massacro?
“Di empatia. È stato un mix di esaltazione e follia, assolutamente premeditato, basato sul disprezzo per la donna e per la povertà. Dava fastidio lo status sociale, il fatto che le due ragazze nutrissero la speranza di accedere ad una vita migliore, come la loro (i colpevoli facevano parte di famiglie agiate, ndr). A tutto ciò ha fatto da contraltare il sodalizio maschile basato su un’omosessualità latente (lo stupro di gruppo non è altro che un’ammucchiata traslata, in quanto si mischiano i liquidi dei genitali di tutti)”.
Come si fa ad essere giusti, ovvero a lottare contro i femminicidi, ma allo stesso tempo a salvaguardare il rapporto uomo-donna? Non si rischia facilmente una frattura insanabile tra i due sessi, mettendoli ogni volta “l’un contro l’altro armati”?
“Non so se è possibile, dopo millenni di maschilismo, riuscire a trattare l’argomento in modo equilibrato. Probabilmente ci vorrà un lungo periodo di assestamento. Bisognerebbe iniziare con l’educazione ai bambini di 6-7 anni. Andrebbero al contempo educate anche le madri a non fare differenze tra figlio e figlia, perché nella maggioranza dei casi le donne, non sentendosi amate adeguatamente dal marito, tendono a riversare il loro amore frustrato sull’erede maschio, viziandolo, proteggendolo ad oltranza, senza così prepararlo ad affrontare una sana relazione da adulto”.
Ringrazio Donatella Mei per la spiccata sensibilità, per essersi fatta carico del dolore altrui, trasformandolo in bellezza, che è ciò che accomuna i veri artisti.
Fonti foto: Felice Levini, Teatro dei Documenti e Facebook