L’attrice ci parla, con la lucente semplicità che l’ha sempre contraddistinta, dei suoi punti di forza e paure, ma soprattutto del grande amore per il teatro
Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Debora Caprioglio al teatro Arcobaleno di Roma dove ha interpretato Bruna Lupoli, colei che per venticinque anni è stata la governante della cantante lirica più famosa al mondo, in uno spettacolo biografico dal titolo “Callas d’Incanto”. Dismessi i panni della vestale che custodisce i ricordi della Divina, ecco cosa ci ha raccontato…
Ha interpretato ed evocato due donne con una personalità fuori dal comune e dal destino tragico, quali Artemisia Gentileschi e Maria Callas. Cosa l’ha ispirata e affascinata di entrambe? Ci sono delle caratteristiche umane e/o professionali che ha in comune con le due leggende dell’arte e della lirica?
I due spettacoli sono scritti e diretti da Roberto D’Alessandro, con cui collaboro da tanto tempo. L’ultimo sulla Callas è un monologo che porto in tournée da 7-8 anni. Leggendo la sua storia personale mi sono commossa. Mi ha affascinato l’essere contemporaneamente una donna forte e fragile, la doppia valenza in bilico tra perfezionismo sul lavoro e amore distruttivo per Onassis. Della Gentileschi mi ha colpito la capacità di affrontare le ingiustizie (ndr, violenza, processo e tortura) e di perseverare sulla strada intrapresa, divenendo di fatto la prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia delle arti del disegno di Firenze. Il trait d’union tra me e loro è sicuramente una grande forza di volontà.
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Le è capitato di vivere storie tormentate come la Callas o è convinta che l’amore debba essere sinonimo di felicità?
“Sono convinta che l’amore muove il mondo ma è anche vero che non sempre è sinonimo di fortuna. Spesso un forte sentimento si accompagna a tante gioie ma reca altrettanti ferite. Il cuore comanda anche il corpo, perciò comprendo chi soffre il mal d’amore che è una malattia a tutti gli effetti”.
Recentemente è uscito al cinema “Nosferatu” di Robert Eggers. La sua carriera venne lanciata come comparsa non accreditata, grazie a Klaus Kinski, proprio con “Nosferatu a Venezia” diretto da Augusto Caminito nel 1988. L’anno successivo fu la protagonista in “La maschera del demonio” di Lamberto Bava. Lei come spettatrice ama il genere horror?
“Mi piace molto, ma essendo una fifona, non vedo mai i film dell’orrore da sola. Devo essere rigorosamente in compagnia. L’importante è che sia più sul versante del thriller psicologico che non sullo splatter con tanto sangue”.
Che ricordo ha di Tinto Brass che l’ha fatta conoscere al grande pubblico con “Paprika”?
“È un grande regista a cui sono grata per l’enorme popolarità che mi ha dato. Il film appena uscì (ndr, nel 1991) fu molto chiacchierato. Ci ha unito la nostra venezianità autentica e verace, il fatto che parliamo la stessa lingua”.
Lei è stata il sogno conturbante per milioni di persone. Si sente una donna erotica?
“Veramente no. Mi sento l’eterna ragazza del liceo. Mi riconosco la voglia di stupirmi ancora, l’essere perennemente sbarazzina, con un forte spirito vitale. Crescendo ho acquisito consapevolezza ma sono diventata anche più timorosa rispetto alle malattie. Da giovane invece ero incosciente, per esempio non avevo paura dell’aereo e non soffrivo di vertigini, mi buttavo maggiormente nelle situazioni”.
Però anche da ragazza aveva comunque paura dei film horror, giusto?
“Si quello sì” (ndr, ride).
Bruna Lupoli è rimasta fedele fino all’ultimo (anche dopo la morte) a Maria Callas. Lei ha amicizie storiche nel mondo dello spettacolo o preferisce coltivarle fuori dal suo settore?
“Le amicizie storiche sono quelle nate sui banchi di scuola. Se devo confidarmi scelgo le amiche del cuore che non svolgono il mio lavoro. Durante la tournée si creano dei legami ma poi finiscono lì, non c’è un seguito con una vera frequentazione”.
A quale ruolo è maggiormente affezionata e perché?
“Quello di Ghisola nel film ‘Con gli occhi chiusi’ di Francesca Archibugi (ndr, del 1994) principalmente per due motivi: ha coinciso con la mia svolta (ndr, fu un cambio di registro interpretando un personaggio molto intenso e drammatico) ed è il genere che prediligo. Adoro i lungometraggi coi costumi d’epoca. A teatro invece ho amato, da buona veneziana, soprattutto i ruoli goldoniani”.
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Preferisce il cinema, la tv o il teatro? Sul lavoro che differenze ha notato tra Italia e estero?
“Senza dubbio il teatro. Dal 1997 ho portato in scena una cinquantina di spettacoli. Mentre il cinema e la tv si basano su dei freddi calcoli numerici, il teatro è la vera palestra in cui il rapporto col pubblico dà la misura di ciò che vale un’artista. Le persone in sala esercitano una propria sovranità. Pur non avendo avuto tante esperienze fuori i confini nazionali posso dire che l’Italia è la culla del cinema e spero ritorni in auge come negli anni ‘60”.
Ha più volte affermato che il teatro per lei è una droga. Prossimamente la vedremo, quindi, ancora sul palcoscenico?
“Sì mi vedrete in ‘Plaza Suite’ con Corrado Tedeschi. A marzo saremo al Parioli Costanzo di Roma, ad aprile al teatro Dehon di Bologna e così via in giro per l’Italia. Interpretiamo tre coppie in crisi in tre diverse situazioni ma in un’unica suite, la stanza dell’hotel Plaza di New York, che dà il titolo alla pièce”.