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Cold case – Il delitto irrisolto di Simonetta Ferrero

Il 26 luglio 1971 all’interno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano viene ritrovata morta Simonetta Ferrero.

La giovane, nata il 2 giugno 1945 a Casale Monferrato, poi trasferitasi a Milano con la famiglia, si era laureata due anni prima nella stessa università in Scienze Politiche ed è subito assunta presso la Montedison.

Il 24 luglio la donna ha delle commissioni da svolgere, dovendosi preparare per una vacanza all’estero assieme ai genitori.

Si reca prima in una tappezzeria in corso Vercelli, poi in una libreria in corso Magenta, dove acquista un dizionario e infine in una profumeria in via Carducci fino alle undici e trenta.

Alle tredici viene vista viva per l’ultima volta mentre entra all’interno dell’Università Cattolica per non uscirne più.

I genitori preoccupati perché la figlia non torna a casa all’orario concordato si recano al commissariato di Polizia di corso Magenta per denunciarne la scomparsa.

Due giorni dopo, il 26 luglio, un seminarista e studente di filosofia dell’ateneo, mentre sale le scale del blocco G sente provenire dai bagni il rumore di acqua corrente.

Decide, allora, di entrare per chiudere il rubinetto, ma all’interno del bagno trova il cadavere di Simonetta Ferrero.

Informate le autorità, iniziano le indagini con i primi rilievi che fanno emergere la causa della morte per accoltellamento: sono trentatré le coltellate sul corpo della giovnae, delle quali sette mortali,non risulta alcun segno di violenza carnale.

L’identità della vittima viene confermata da due parenti, in quanto i genitori alla notizia del ritrovamento si sentono male: il padre ha due infarti e la madre un collasso.

Le indagini sono fin dall’inizio molto difficili, a partire dal motivo per il quale la giovane fosse

all’università di sabato: per alcuni l’ipotesi era per recarsi al bagno, per altri era per fare un favore a un’amica andandole a prendere degli appunti.

Tra i primi sospettati c’è il seminarista che ha scoperto il corpo, ma questa pista viene abbandonata perché non soro trovate ferite o tracce di sangue sull’uomo e sui suoi vestiti.

Si vira allora verso qualche laureato insoddisfatto del colloquio sostenuto con la donna per lavorare alla Montedison, ma anche in questo caso non si arriva a nulla, così come non emerge alcunché dagli interrogatori dei muratori che in quei giorni lavoravano all’ateneo.

Il caso sembra riaprirsi nel 1994 quando arriva al prefetto di Milano una lettera anonima dove si riporta che in quel periodo un religioso venne allontanato dall’ateneo perché importunava delle studentesse, ma anche questa si rivela una falsa pista che porta all’ennesimo nulla di fatto.

A più di mezzo secolo questo efferato delitto resta ancora insoluto, ma profondamente radicato nella memoria collettiva anche grazie alla sua reinterpretazione letteraria nel racconto “Salvo amato…” “Livia mia…”, all’interno de “Gli arancini di Montalbano” scritto da Andrea Camilleri.

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