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Tra la “melanconia romagnola” e la “banalità del crimine”: l’Italia descritta da Igor Maltagliati

“Da Rocky ai Goonies, dai Predatori dell’arca perduta ad Altrimenti ci arrabbiamo, i film che mi hanno trasformato e inspirato”

Quando è nato in lei l’amore verso il cinema e soprattutto chi è stata la sua fonte di ispirazione massima?

“È da quando sono bambino che ho dimostrato una attitudine spiccata nel raccontare ‘storie’, radunare attorno a me amici e conoscenti e intrattenerli con favole inventate o barzellette. Sempre stato un affabulatore, una spinta irrefrenabile. Il mio primo film in assoluto, in compagnia di mio padre fu ‘Guerre Stellari’, avevo 5 anni e da allora in poi il grande schermo si trasformò per me del magico mondo dei sogni fatti realtà. Capii che quella forma di comunicazione fosse la più adatta per me. Fin dalle elementari scrivevo temi fantasiosi e alternativi, e da quel momento non ho più smesso. Chiaramente ho studiato e approfondito le mie ricerche, ma posso dire di essere nato con questa passione e inclinazione. Film che hanno influenzato incredibilmente la mia visione e mi hanno trasformato e inspirato sono moltissimi ma alcuni titoli sono stati autentiche pietre miliari: ‘Rocky’ e ‘Rambo’, ‘I predatori dell’arca perduta’, ‘Shining’, ‘The Goonies’, ‘Altrimenti di arrabbiamo’, ‘L’attimo fuggente’, ‘Pulp fiction’, ‘Magnolia’, ‘C’era una volta in America’, ‘Il buono, il brutto e il cattivo’ e ‘La leggenda del re pescatore’. Decine di altri ovviamente, ma questi sono parte del mio corredo biologico, per così dire”.

Il suo lavoro cinematografico che ha avuto più risonanza a livello internazionale è stato “Tutto liscio ” con Maria Grazia Cucinotta e Serena Grandi. Che differenza c’è tra il panorama cinematografico nostrano e quello Nordamericano in special modo?

“Beh, ci sono decine di differenze: la principale è il fatto che il cinema americano è un’industria. Ovvero viene trattato anche come un oggetto che crea soldi, e non solo come un contenitore di cultura e intrattenimento. Da noi cinema e teatro sono invece usualmente adoperati in tutt’altro modo, basti pensare che la filiera finanziaria dei nostri prodotti artistici è quasi interamente legata ai finanziamenti statali, senza i quali morirebbe miseramente. Negli USA l’investimento è privato e la qualità deve essere alta per forza, altrimenti il finanziatore non rientra dei suoi soldi. In Italia è molto meno determinante l’incasso, visto che i soldi arrivano prima dell’uscita del film e produttore e artisti guadagnano direttamente da questi finanziamenti ministeriali a fondo perduto. Ovviamente un simile sistema non poteva creare una catena virtuosa: se non hai nulla da perdere e i soldi non sono tuoi, a chi vuoi che importi veramente della riuscita di un film? Il discorso è talmente lungo e complesso che non posso affrontarlo ulteriormente, sarei a rischio di superficialità. Comunque questo è il dato essenziale (oltre alla lingua, l’inglese è esportabile in tutto il mondo): un circolo virtuoso, perché l’iper professionalizzazione dell’industria dell’intrattenimento americana fa sì che anche gli artisti, oltre al talento, siano costretti a investire sulla formazione: e così nascono grandi artisti e grandi opere. Noi italiano siamo favolosi, pieni di talento, ma assolutamente non messi nelle condizioni di aggredire il mercato con la medesima forza professionale”.

Oltre ad essere regista lei è anche uno sceneggiatore. In quale ruolo si sente più a suo agio?

“Io sono principalmente autore e sceneggiatore e nella scrittura sono totalmente a mio agio, posso affrontare qualsiasi tema, senza esitazioni né paure o sensi di inadeguatezza. In più, nella scrittura posso essere realmente libero da ogni forma di costrizione e compromesso, cosa praticamente impossibile quando si affronta una regia. Detto questo, il set o il palco di un teatro mi regalano emozioni più potenti della mia scrivania di scrittore, poiché il contatto umano è reale, giornaliero, e io amo lavorare in squadra e condividere emozioni, parole, anche discussioni, con altri artisti. Da spettatore amo il cinema più del teatro, da regista esattamente il contrario, sebbene sia consapevole che il cinema è l’arte del regista e il teatro invece, quella dell’attore”.

Lei ha ancora una carriera davanti, ma che percezione ha delle nuove generazioni di registi?

“Non saprei cosa rispondere. In totale onestà non ho ancora visto ‘il fenomeno’ affacciarsi alla ribalta. Noto giovani estremamente tecnici, ma formati da una realtà povera artisticamente e di conseguenza poco ispirati. La digitalizzazione e il fenomeno delle piattaforme nonché di Youtube o Tik Tok hanno contribuito a creare un universo di contenuti a dir poco superficiali, di fin troppo rapido consumo che ovviamente scarsamente si prestano alla profondità esistenziale dei messaggi o all’artisticità o sperimentazione, che per loro natura hanno bisogno di maggior concentrazione e partecipazione da parte dei consumatori. Ma questo non è un circolo virtuoso come quello che ho citato poc’anzi: questo è un circolo vizioso, del quale preferisco non essere socio. Tuttavia io come tutti devo lavorare, è sono soggetto a compromessi continui. C’è la vie!”.

Attualmente sta lavorando ad un nuovo progetto come regista?

“Grazie a Dio a più di uno, sia cinematografici che teatrali: il 1 aprile debutterò al teatro Imperiale di Guidonia con la commedia ‘La vita dopo’, prodotta da Massimiliano Dau che poi passerà da Roma e Ostia e farà una piccola stagione estiva. A maggio debutterò con un altro spettacolo al teatro Santa Francesca Roma al quartiere Eur mentre riguardo al cinema, sono in preparazione di due lungometraggi in lingua inglese prodotti da Claudio Bucci e Amedeo Letizia, piccoli ma estremamente particolari, e di un revenge-movie con la compagnia Hurricane di Matteo Silvestri ambientato in una Venezia notturna e spettrale. Si tratta di progetti produttivamente contenuti ma animati da produttori combattivi. Poi ho un film più ‘laborioso’ e importate economicamente e con un cast significativo, ma lì c’è un po’ da aspettare. Incrocio le dita”.

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