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Una vita sul palco: musicista con Pino Daniele e “Postiglione” con Carlo Verdone, intervista a Luigi Petrucci

“Ci sono sostanzialmente due tipi di attori: l’interprete, ovvero quello che si fa divorare dal personaggio, e l’attore che ‘utilizza’ sé stesso per divorare il personaggio”

Luigi Petrucci è ormai una delle icone del nostro cinema. Nato a Napoli e cresciuto artisticamente nella storica scuola teatrale partenopea, è ricordato da tutti i cineasti per il ruolo di Postiglione nel film di Carlo Verdone “Compagni di scuola”. Ma identificarlo con quel ruolo è altamente riduttivo, difatti, le sue partecipazioni in serie televisive come “Un posto al sole”, “I bastardi di Pizzofalcone” e il “Capitano” sono l’espressione del suo spessore artistico. Una particolare menzione merita la sua interpretazione di Peppino Amato nel recente film “ La vera storia della dolce vita “ del 2019.

Petrucci lei nasce come attore teatrale nella sua città nativa, Napoli. Quanto deve, da un punto di vista artistico, alla scuola teatrale napoletana?

“Se vogliamo essere precisi sono entrato nel teatro come musicista, come chitarrista. Ho avuto il piacere di suonare per 10 giorni con Pino Daniele, che rincontrai nel film ‘Blues metropolitano’. Ho iniziato i miei primi passi di attore all’interno della grande scuola napoletana con attori del calibro di Carlo Croccolo, i fratelli Maggio, i fratelli De Filippo e i fratelli Giuffrè. L’esperienza nella scuola napoletana è stata fondamentale. Da essa ho appreso l’arte dell’improvvisazione, che segue determinate regole tecniche, come per esempio quella di osservare e di agire con soluzione di continuità. La cosa curiosa che questa scuola, nonostante la sua importanza ed eccellenza, non ha mai codificato alcuna regola: solo a distanza di anni sono riuscito comprenderne le occulte linee di direzione. Oltre a ciò, da essa ho appreso i cosiddetti tempi e soprattutto la disciplina. Fare teatro, è una cosa seria che richiede, impegno, dedizione e soprattutto costanza”.

Da un punto di vista cinematografico il suo nome è legato in particolar modo al film “Compagni di scuola” di Carlo Verdone dove ha interpretato il ruolo di Postiglione. Che ricordi serba di quella esperienza?

“Da giovanissimo lavorai con il papà dei fratelli Vanzina, Stefano Vanzina. Grazie alla sua presentazione a Carlo Verdone quest’ultimo non mi fece fare alcun provino e scelse direttamente me per il personaggio di Postiglione. ‘Compagni di scuola’ è stato un film importante che mi ha permesso di avere una maggiore visibilità per il mercato, non solo cinematografico, ma per quello delle serie televisive. Di Carlo Verdone ho un ricordo gradevolissimo. È una persona molto divertente, di grande compagnia. Durante le riprese del film, la sera nonostante ore passate assieme sul set andavamo a mangiare assieme e restavamo a parlare fino a tarda sera. Cosa, questa, mai più capitata! Vi racconto un aneddoto su Carlo: la mattina, prima di iniziare le riprese, si sincerava sempre delle condizioni di salute di ciascuno di noi e non esitava a dare dei consigli di farmacologia nel caso qualcuno stesse male. Vi dico solo che, a più di trent’anni da questa esperienza straordinaria, c’è ancora gente a Roma che mi chiama Postiglione!”.

In televisione le sue partecipazioni sono innumerevoli, da “Un posto al sole” ai “Bastardi di Pizzofalcone”. Secondo lei il bravo attore è quello che sa calarsi in più ruoli diversi?

“Le faccio i complimenti per la domanda, molto pertinente. Ci sono sostanzialmente due tipi di attori: l’interprete, ovvero quello che si fa divorare dal personaggio, e l’attore che ‘utilizza’ sé stesso per divorare il personaggio. Io prediligo il primo tipo, quelli che nel mondo anglosassone vengono definiti il character actors: sono quegli attori che, a seconda dei differenti ruoli che essi interpretano, fai fatica a riconoscerli: dei fulgidi esempi , che mi vengono in mente di primo acchito, sono Robert De Niro e Daniel Day Lewis. Poi esiste un terzo genere che non definirei di attori ma , semplicemente, di personaggi: sono quei recitanti che li vedi sempre uguali a sé stessi, in pubblico cosi come sul set e nella vita privata. Per un pubblico che non ha senso critico e gusto essi sono attori, ma in realtà, il vero attore non può mai essere sempre uguale a sé stesso ma deve saper apportare sempre qualcosa di diverso. Questa mancanza di consapevolezza, che a volte è percepibile anche nella critica cinematografica, rappresenta una deriva pericolosa”.

Da buon partenopeo che lei è mi viene spontanea una domanda. Che ne pensa dei suoi conterranei, il regista Sorrentino e l’attore Servillo?

“Con Paolo Sorrentino ho fatto da protagonista nel suo primo corto ‘L’amore non ha confini’. Quando lessi il contenuto di questo corto rimasi positivamente colpito e non tardai a dirgli che avrei partecipato gratuitamente come attore. Personalmente ho grande stima di Sorrentino, possiede quella che si definisce ‘cifra stilistica’ e incarna perfettamente il cinema d’autore dei nostri tempi. Lo incontro sempre per la scelta del casting di ogni suoi film in lingua italiana, compreso il vincitore di premi Oscar ‘La grande bellezza’. Vengo sempre attenzionato da lui, addirittura per la serie televisiva ‘The young Pope’ feci un provino di 15 pagine, ma per un motivo o per un altro non ho avuto più il piacere di una collaborazione. Servillo è un attore di prima classe in Italia e, ormai, anche nel mondo. Dal mio punto di vista, se proprio dobbiamo trovargli un difetto, dà l’idea di un attore che si specchia e si ascolta molto, inoltre, lo trovo un po’ troppo sovraesposto, ma questa non è sua responsabilità ma dell’industria cinematografica italiana che punta sempre sugli stessi attori”.

Lei è anche un appassionato di politica. Che differenza c’è tra la classe politica della Prima Repubblica e quella di oggi?

“La politica è la mia passione, il cinema il mio lavoro. Innanzitutto nella Prima Repubblica c’era un sistema di comunicazione diverso, esisteva la grande piazza che aveva bisogno di grandi leader. Prima di Berlusconi non c’era una politica legata esclusivamente al consenso, ma c’erano degli statisti che guardavano oltre ciò. Moro e Berlinguer, per esempio, riuscirono a portare il proprio elettorato su posizioni prima inimmaginabili, il tutto per il solo interesse dello Stato. Dal 1994 la concezione della politica cambia: i partiti diventano comitati elettorali ed il consenso diventa più importante del bene comune. Da quella trasformazione tutt’oggi ancora non ci siamo ripresi. Attualmente non esiste più una strutturata elaborazione di pensiero politico, ma sono una spasimante voglia di visibilità: il che è alquanto problematico”.

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