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Murgia, Fedez e la spettacolarizzazione del dolore

Sui social accade sovente che una persona pubblichi il suo stato di salute e condivida con un pubblico poco attento il dramma che sta vivendo per una malattia seria o meno.

Questo accade sia tra noi servi della gleba che per i vassalli che altro non sono che coloro che detengono sostanzialmente un potere mediatico non indifferente per la loro visibilità al punto che sono di fatto pensatori liberi (così credono loro) che influenzano il modo di pensare di chi li ascolta.

Da un lato abbiamo Fedez che ha gravi problemi di salute e, come suo solito, pubblica sui social cosa gli accade.

Sul punto, esistendo un pessimo karma (che è anche in capo alla Murgia), le reazioni dei servi della gleba, nella solita gara di rutti, sono svariate: da chi partecipa al dramma a chi gode della malattia altrui.

Dall’altra abbiamo la Murgia, non un mostro di simpatia sia per le cose che dice che come le dice tanto da potersi considerare un Burioni in gonnella.

Ma al contrario di Fedez sta rendendo la Sua malattia non semplice spettacolo sul principio latino del panem et circenses, ma sta umanizzando il dramma con parole che fanno riflettere e dando una luce nuova a colei che dell’astio politico ne ha fatto una missione.

Ma anche lei è vittima, in modo karmico, di ritorsioni di godimento avanti alle sue difficoltà laddove la plebaglia sembra godere che alla stessa rimangano sei mesi di vita, affrontati – almeno apparentemente – con una dignità che io non avrei sapendo che il buon (?) Dio mi ha dato una data di scadenza.

Sinceramente esternare la circostanza che sono un malato terminale non è nelle mie corde e non lo farei anche se fossi un personaggio pubblico anziché il coglione di turno, ritenendo la malattia un fatto intimo che terrei per me.

Seneca affermava: Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto.

Questo non vuol dire che una Murgia o un Fedez non abbiamo un grande dolore o una grande preoccupazione ma mi domando se la condivisione del dolore porti un dimezzamento dello stesso – come affermava san Tommaso d’Aquino.

Di sicuro sta comportando una reazione scomposta e contraria da parte di tanti che può raggiungere l’orgasmo mentale di sapere le difficoltà di chi ha visibilità e mi domando che senso abbia mettersi alla berlina dopo avere seminato – più o meno – odio sui social.

Un boomerang deprimente.

In realtà potrebbe essere accaduto che i personaggi in questione non siano odiatori seriali a prescindere, ma personaggi che emanano maldestramente la loro umanità verso gli altri con una certa dose di perfidia proprio perché sanno di essere malati e quindi hanno reagito male a tale loro status e avendocela con il mondo intero.

La malattia, forse , come causa di giustificazione pregressa.

Perché non tutti reagiscono alla stessa maniera avanti al dolore o a una difficoltà.

Basti pensare al meraviglioso Ezio Bosso e al messaggio sublime di positività che ha emanato sino all’ultimo respiro delle sua esistenza e venendo preso a parametro di una santità laica.

Nel quotidiano, per esempio, ci sono persone sulla sedia a rotelle che sono meravigliose e piene di grazia e altre che sono cattive verso la vita proprio perché non hanno accettato l’ergastolo di stare seduti per tutta la vita.

Ma tant’è.

Non tutti hanno la soavità, al di là di Bosso, di una Alda Merini avanti al dolore di una pazzia mal gestita da altri e che ne ha fatto una martire della sana follia, incardinando il prototipo di una mente malata apprezzatissima e invero lucidissima che sarebbe potuta essere amata da Mario Tobino, colui che dei suoi matti a Magliano di Lucca, diceva i miei amati matti.

Scrittore e neuropsichiatra, per dire.

Il dolore, secondo me, è un fatto intimo che sublima l’elevazione dello spirito verso una ricerca, nel tempo che rimane, alle risposte che ci siamo fatti una vita e che trova nell’esito finale di morte quel compimento maldestro dei disegni divini, all’apparenza imperscrutabili anche alle menti più sopraffini che invece si rifugiano tardivamente nella preghiera che diventa un alibi.

Ma non basta la esternalizzazione del dolore perché se ne abbia di meno e il parlarne non lo demonizza e farlo in pubblico ancor meno ,con il risultato che si è perso quel minimo di intimità verso se stessi che danneggia l’immagine che si ha.

Ma oramai i paletti sono caduti e tutto viene riversato sui social, dalla malattia alle acrobazie sessuali con il compagno/compagna con uno sputtanamento che fa presumere non tanto un aumento di comunicazione o di libertà, ma di imbecillità che cresce di pari passo con la prepotenza di una società che sarà dominata da intelligenze artificiali.

Almeno queste non diranno le loro cose sui social con un imbarazzo inesistente a cui risponderanno altre intelligenze artificiali che non sapranno come far crescere un qualsiasi sentimento anche di indignazione o partecipazione e decretando la morte del pathos (πάθος).

Ne consegue che con la spettacolarizzazione del dolore viene infranto quel tabù mistico e segreto per essere pronti ad uscire di scena, ma di cui agli altri, passati pochi giorni, poco importa se non agli affetti veri.

Milan Kundera afferma: “Disprezza la letteratura nella quale gli autori rivelano ogni cosa intima propria e dei propri amici. La persona che perde la propria intimità perde tutto”.

A meno che Murgia e Fedez abbiano esteriorizzato il dolore per lasciare un messaggio della loro umanità dopo aver gettato odio su tutto e che ben conosciamo.

Un redenzione tardiva e terribile ma che comporta , in capo ad essi, il perdono dei servi della gleba.

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