Il 4 novembre si è festeggiata la giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate e tale data coincide con il famosissimo Bollettino della Vittoria di Armando Diaz del 4 novembre che sancì la vittoria italiana sugli austro-ungarici.
A novembre è il trittico, unitamente al 1° novembre e 2 novembre, che unisce il sacro al profano.
È forse la festa meno sentita da noi italiani non tanto per avversione a tale tipo di ricorrenza, quanto perché sostanzialmente è trascorso tanto tempo (105 anni) dal nostro trionfo in quella che può essere considerata a tutti gli effetti la quarta guerra risorgimentale.
Girando l’Italia mi accorgo che spesso, anche nelle frazioni più sperdute, c’è la targa con il bollettino della Vittoria e in generale è posta nella piazza principale del paesino circondata ora da cipressi ora da querce.
Più spesso, se non sempre, c’è o un monumento ai caduti di tale guerra con i nomi dei paesani morti nel nord-est italiano o addirittura targhe commemorative con relativi piccoli lumini e corone di alloro dimenticate.
Anche noi in Umbria abbiamo le nostre targhe con i nostri morti in quasi tutte le frazioni o almeno in quelle appenniniche e che sono state colà apposte durante il ventennio fascista non come monito per il giusto ricordo dei sacrifici, ma quale stimolo di un istinto patriottico oggi fallito e che emerge solo quando ci sono i mondiali di calcio e rimanendo un grande incompiuto anche per colpa di una sinistra che appena si parla di Patria e Nazione grida al fascismo.
Per il periodo storico in cui venivano apposte tali targhe, risultano spesso e volentieri di una bellezza artistica struggente perché raramente sono quasi razionaliste e il più delle volte in stile liberty dell’epoca imperante che – proprio per la leggerezza di tale tratto artistico fatto di tondi, sfumature, riccioli e vetri colorati – cozza con la drammaticità dei nomi e l’età dei soldati defunti e non permettendo al turista distratto di ragionare sui soldati morti osservando invece la bellezza d’insieme della targa stessa.
Vedono la bella targa e non ciò che rappresenta.
Ho avanti la visione di tante targhe che ho incontrato sul mio cammino nelle mie passeggiate ora lavorative ora no soprattutto tra l’altipiano di Colfiorito verso il Sellanese che sfocia poi nella Valnerina laddove il terremoto ha permesso fugaci restauri delle targhe stesse non per sensibilità artistica od emotiva, quanto costretti senza un perché.
A me, che ho un carattere articolato se non difficile perché ragiono anche su stronzate inarrivabili con un onanismo mentale spaventoso, ogni volta che vedo e ammiro queste targhe mi viene in mente – avendo un figlio giovane – cosa fosse significato mandare il proprio pargolo in una guerra non capìta dai più, ma assolvendo tale onere per senso del dovere o evitare la renitenza alla leva e quindi la fucilazione.
Le targhe sono spesso il compimento di una giusta preoccupazione dei padri dell’epoca con una rassegnazione scolpita nel marmo quale monito del dolore paterno.
Non più figli ma soldati.
Con la prima guerra mondiale si può assolutamente parlare di prime migrazioni interne laddove, per esempio, i calabresi andavano a morire sul Grappa o sul Carso in funzione di un ideale di Patria che doveva ancora essere costruito e su cui si accanì il fascismo con una retorica stucchevole, ma valida al tempo.
Dimenticano i più che anche le frasi di rimembranza erano figlie non tanto di una ideologia totalitaria, ma del tempo vissuto sull’onda lunga di un neoromanticismo che trovò il punto di frattura nelle arti visive soprattutto nella pittura con il Futurismo che altro non era che la trasformazione italiana del dadaismo, sancendo la nascita delle avanguardie e proiettando il tutto in una malcelata voglia di modernità a mezzo della velocità.
D’altronde, tornando alle targhe commemorative, ai più sfuggono le frasi ad effetto scolpite sui marmi dei defunti degli anni 20 che ricalcano quella retorica che oggi stona in funzione di un politicamente corretto che svilisce tutto, in primo luogo la libertà di scrivere e pensare diversamente.
È una festa sostanzialmente divisiva perché la destra la ricorda in funzione dell’amor Patrio e la sinistra – che avversa tale sentimento in funzione di un proletariato globale e unito – che schifa senza ragionare che in tale guerra andavano a morire le classi sociali più basse come contadini e manovali mentre i grandi borghesi o i nobili stavano nelle retrovie a osservare il massacro di tanti Italiani.
Una guerra antiborghese, per usare un eufemismo di Pasolini, e non capìta dalla sinistra che dovrebbe invece esaltarla in funzione di tanti contadini , braccianti e manovali alla deriva di una società fondata sul latifondo del pensiero unico.
Ma entrambi gli schieramenti politici toppano in egual misura dal momento che si appropriano di questa ricorrenza non tanto per il giusto senso di devozione laica, quanto per ideologia attuale svilita da una esaltazione del dio denaro in entrambi i casi anche se con rimedi economici diversi.
Risulta inutile rammentare a tutti la terribile realtà in cui i ragazzi del ‘99 (in pratica bambini con lo schioppo in mano) andavano in trincea e prosaicamente descritti da libri mirabili come “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu o “Con me e con gli alpini” di Piero Jahier in cui si legge la difficoltà di queste classi sociali basse ad affrontare una guerra decisa da altri in poltrona.
E tutto per avere una società attuale dove imperano gli influencer che promuovono prodotti che un operaio o un contadino non possono comprare facendo sorgere il ragionevole dubbio che se i ragazzi del ‘99 avessero immaginato l’Italia del terzo millennio in tale attuale modo, si sarebbero dati alla macchia per non morire inutilmente.
Aveva ragione il grande pittore futurista Umberto Boccioni che partì volontario animato da belle speranze nella esaltazione di un interventismo di molti artisti e rimanendone deluso – oltre che a morire in Verona per una caduta da cavallo e non in battaglia – tanto che ebbe ad affermare che la trincea era polvere ed insetti.
Capì che in tale guerra non c’era nulla di eroico, ma solo martiri i cui nomi campeggiano delle targhe dimenticate di cui ho parlato.