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C’è ancora domani

Inutile dire che il titolo dell’articolo ricalca il film della Cortellesi che sono andato a vedere dopo l’abbuffata di film della Marvel o Pixar insieme ai miei figli nel corso degli anni.

Ho sempre amato il cinema e i film e, al pari di alcuni libri, mi sono stati amici che mi hanno suscitato emozioni, a volte contrastanti, il più delle volte malinconici.

Ci sono andato perché, per una volta, mi sono voluto omologare al sistema dominante e non rimanere uno dei pochi che non ci sarebbe andato.

E ho fatto benissimo ad andare perché il film mi è piaciuto tantissimo per tanti motivi.

Debbo premettere che con la professione che faccio ho sempre il dovere di interfacciarmi con le persone e qualcuno di essi mi racconta il proprio vissuto su cui poi debbo lavorare per dipanare la questione.

Altra premessa necessaria è che amo il cinema tantissimo e ho sempre ritenuto che il cinema italiano sia completamente diverso da quello americano che confeziona un bel prodotto che rimane sempre freddo.

Un po’ come la statuaria di Antonio Canova rispetto allo scultore danese Bertel Thorvaldsen (stesso periodo storico) in cui le opere del danese sono altrettanto perfette quanto quelle del Canova, ma non hanno anima.

Nel cinema tra i film americani e quelli italiani è la stessa cosa e a seguire, dopo di noi, i film francesi di Truffaut o di un Luis Malle.

Non possiamo e non dobbiamo dimenticare, infatti, i grandi film a matrice neorealista, rigorosamente in bianco e nero, che di fatto erano opere ora di denuncia sociale ora di impegno civile che altro non è, in quest’ultimo caso, l’input di un cinema schierato politicamente e che ebbe in Gian Maria Volontè il massimo rappresentante del pugno chiuso.

Ma al di là delle connotazioni politiche o meno di certi film, non si può che prendere atto che alcuni di essi sono capolavori irraggiungibili che rimangono nella storia del cinema.

Film anche coraggiosissimi come Roma città aperta con Anna Magnani e Aldo Fabrizi girato nell’immediato dopo guerra con le ferite ancora aperte a causa di tale drammatico evento.

Oppure parliamo dei film di Sergio Leone, vere pietre miliari a cui hanno attinto tutti negli USA, per primo Tarantino o Sam Peckinpah ne Il mucchio Selvaggio.

Fatto questo breve excursus, ritengo immodestamente, che al film della Cortellesi si possa dare un solo appellativo: geniale e spiego il perché.

Al di là dello splendido bianco e nero, il film ha una fotografia (che in buona sostanza sono le inquadrature) che rimanda alle bellissime foto di Cartier Bresson o un Mario Giacomelli laddove l’ipotetico fermo immagine della tazza di caffè e latte sul tavolo può suscitare anche il ricordo di un dipinto neoimpressionista di Giorgio Morandi e le sue stoviglie grigie.

Perché se i film in generale debbano suscitare ora emozioni ora riflessioni, rimane indubbio che la vicenda narrata dalla Cortellesi colpisce tutti noi.

I commenti di alcuni sprovveduti, per usare un eufemismo per non dire direttamente idioti, hanno avuto risvolti politici con una sinistra che parla di eventuale riscatto della donna verso la marito padrone mentre la destra oscurantista come una esagerazione per meri fini politici che svilisce la figura dell’uomo e il senso di sacrificio che dovrebbe essere connaturato nel sistema famiglia.

Io penso in realtà che il film della Cortellesi sia solo uno spaccato della società dell’epoca in cui la donna, sino a poco tempo fa, contava come il due di coppe e briscola a bastoni e culmina come monito non tanto di ribellione attuale della donna stessa, ma come avvertimento di ciò che non dovrà essere più per quella auspicata parità umana tra esseri viventi.

Perché, e lo dico a ragion veduta, il film è uno spaccato sul maschio dominante e picchiante che ancora resiste in qualche enclave di imbecillità che fa sorgere il legittimo sospetto che non si è davanti ad un sistema familiare antico basato sui sacrifici in gran parte della donna, ma davanti ad una società arcaica se non direttamente primitiva.

Inutile dire che il film evidenzia lo storico spirito di sacrificio delle donne italiane, ma altrettanto vero che evidenzia nella figlia femmina la proiezione illuminata di una madre che vuole far evitare alla figlia lo stesso cursus honorum verso l’abisso e inculcandole la voglia di riscatto amoroso vero.

Perché, secondo me, è il tema centrale del film e trattato con una delicatezza ben poco capibile da chi è abituato a vedere filmetti americani o simili.

Il mezzo per tale riflessione è la figura del marito padrone interpretato magistralmente da Valerio Mastrandrea che aveva il compito sommesso di provocare sentimenti di disprezzo verso di lui allo spettatore e creando una figura odiosa che deve essere di monito al maschio italico.

E in tutto ciò dare una valutazione politica a aspetti antropologici denota che in Italia certi film non ce li meritiamo, ma ciò accade non tanto per quel mancante sentimento di giustizia che ci distingue dagli animali, quanto perché in ogni persona cova sotto la cenere quell’istinto primordiale di fuggire alla riflessione e svilendo tutto.

Un pugno nello stomaco.

Per gli uomini.

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