Oggi ricorrono i trent’anni dalla conquista del Pallone d’Oro da parte di un uomo che ha fatto innamorare milioni di persone. Capiamo insieme il perché dell’incantamento collettivo
In quest’ultimo scampolo di 2023 non poteva mancare una rappresentazione teatrale per il centenario della nascita di Italo Calvino (15 ottobre 1923). Ieri sera nello Spazio Rossellini di Roma, polo culturale multidisciplinare della Regione Lazio, è andata in scena la pièce “C’erano una volta le fiabe”, scritta e diretta da Leonardo Petrillo (stasera la seconda ed ultima replica). Le fiabe ammaliano bambini e adulti perché sono un perfetto intreccio tra sogno e realtà. Anche se può sembrare un paradosso, solo utilizzando la fantasia capiamo chi siamo per poter meglio plasmare la vita. Ad una madre che desiderava un figlio scienziato Einstein disse: “Vuole che diventi intelligente? Gli racconti le fiabe”. L’idea di un uomo su un cavallo lanciato alla velocità della luce fu, infatti, la curiosità fiabesca che lo portò a scoprire la relatività. Per lui “l’immaginazione è più importante della conoscenza” perché “abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione”. Il teatro non è altro che la cassa di risonanza dell’immaginazione. La fiaba, mito arcaico per tutte le età, è immortale in quanto corre sul filo immaginario che abita la nostra anima, costringendoci, in un saliscendi emotivo, a trovare soluzioni sempre nuove. Cosa è la vita professionale di Baggio se non una continua rimessa a punto delle soluzioni quando si trova a terra, subito dopo aver conseguito un successo personale?
Calvino fece rivivere le fiabe, raccogliendole e traducendole dai vari dialetti. Alla fine della seconda guerra mondiale Giulio Einaudi gli chiese di “unificare” l’Italia distrutta attraverso archetipi nei quali tutti gli italiani si riconoscessero. Chi meglio del figlio di Eva Mameli, discendente di Goffredo, l’autore del nostro inno, poteva farlo? Niente ci affratella più di quelle narrazioni emozionanti tramandate oralmente. Non sarà la razionalità, ma la creatività a salvarci. Il grande scrittore parla delle fiabe come il “catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano”. Nelle vicissitudini al cuore della fiaba ritroviamo i momenti salienti della vita professionale di Baggio: “la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita, la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo”.
Il personale trionfo del divin codino è il Pallone d’oro, conquistato lo stesso giorno, undici anni dopo la vittoria di un altro vicentino venuto a mancare troppo presto, Pablito Rossi, tra i suoi miti d’infanzia. Niente è a caso. Tutto ha un senso, come nelle fiabe, che sono vere, perciò sono amate. Anche Roberto Baggio viene percepito come genuino, per questo crea immedesimazione. Il Brescia di Mazzone, dopo anni di angherie ingiuste, è stata la migliore risposta narrativa, il lieto fine tanto atteso dai suoi beniamini. Gustave Eiffel, geniale ingegnere di cui ricorreva ieri il centenario della morte, usa il termine “sincerità strutturale” quando “ogni elemento della costruzione è conformato e posizionato in base a ciò che deriva dall’analisi statica della struttura stessa” come nel celebre caso della torre parigina, all’ombra della quale trent’anni fa Roby conquistò l’ambito trofeo. Baggio è la risposta sincera e strutturale, quindi, a quel processo fiabesco che non può deludere mai proprio perché dice il vero, come cantava nel celebre sonetto “La bocca della verità” il poeta Giuseppe Gioacchino Belli (il 21 dicembre 1863 era il 160esimo anniversario dalla morte): “… Je ce metto una mano, e nu’ la strigne/ La verità da me ttiella pe’ certa.” Il “c’era una volta” delle fiabe è la promessa di un’unicità in cerca di compimento, come è la vita di ognuno di noi, con la differenza che non tutti poi mantengono quella promessa. Molti si adeguano alle lusinghe ingannevoli del nostro tempo, perdendo di vista ciò che li fa sentire vivi, quindi sinceri con se stessi, ossia veri. Roberto Baggio non solo non è mai venuto meno a quella promessa, ma ci ricorda ogni giorno la nostra di promessa, perché il successo alla fine è “realizzare nella vita quello che si è, nel modo migliore”. Sta a noi tramandare questa bellissima fiaba azzurra che ci unisce trepidanti da nord a sud.