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Le vacanze degli umbri, tra il mare dietro l’angolo e la grigliata della sagra

Ci vanno in ferie gli Umbri?

Domanda paradossale che merita risposta.

Di sicuro i mesi preposti alle ferie, notoriamente, sono giugno, luglio ed agosto per qualche dipendente pubblico – difficile per il dipendente privato.

Ora, non so dove vadano i miei conterranei avendo solo contezza dei folignati che si riversano sulla costa in prossimità di Civitanova, ma certo è che nel corso degli ultimi 30 anni le cose sono un pò cambiate.

I miei corregionali sono in gran parte amanti del mare – che abbiamo un pò distante – e sentendone la mancanza anche per i noti motivi di tiroide appena possono migrano verso le grandi direttrici stradali che sfogano o verso il Tirreno o verso l’Adriatico.

Su questo svolge un ruolo di primaria importanza la SS77 Val di Chienti che unisce Foligno a Civitanova in un’ora dalla terza città dell’Umbria.

Ma percorrerla soprattutto nei fine settimana è un atto di suicidio perché già da Macerata ovest comincia la fila di automobilisti bestemmianti al pari della Statale Contessa che è la seconda grande direttrice.

Ora, il problema nasce dal fatto di capire se gli umbri vanno in vacanza con ferie mordi e fuggi perché non hanno molti giorni di ferie o perché una settimana di mare a Senigallia o Porto San Giorgio per una famiglia di 4 persone costa al pari di un viaggio a New York.

Infatti il problema è sempre lo stesso e che attanaglia la maggior parte degli italiani e cioè analisi costi benefici per decidere dove andare.

Perché il nostro meraviglioso paese (inutile dirlo il più bello al mondo), offre tante soluzioni imbarazzanti per la quantità di cose da ammirare ma per avere un servizio decente si deve vendere un rene o fare la scelta radicale di arrangiarsi come si può perché soldi ce ne sono pochini.

Ne consegue che in molti rimangono in zona anche per l’atavica idiosincrasia de noantri a stare i mezzo al casino e pagandoci sopra uno sproposito.

Gli unici che godono sono i perugini di origine calabrese che, come ogni estate, ritornano al paesello di origine vista come Terra dei Padri del Talmud.

Gli altri, la stragrande maggioranza, si godono le varie sagre che imperversano in moltissime località delle nostra regione e organizzate delle varie Pro loco che hanno nel volontariato il punto centrale della socialità non economica.

Ma anche qui, se si vanno a verificare le presenze di persone in questi eventi, ci si accorge che in linea astratta si vorrebbe fuggire dalla pazza folla salvo poi rimanere imbottigliati in file chilometriche alla cassa per pagare tre salsicce ai ferri al 90% bruciate e con vino al metanolo che spacca il fegato.

E avere sul palco complessi di musica da ballo improponibili e con atteggiamento da coatti per la gioia di molti anziani che ritrovano nuova linfa di pruriti sessuali se non gli prende il coccolone per il caldo asfissiante.

E spendendo comunque molto rispetto al servizio offerto.

Discorso diverso, invece, è la zona del Sellanese e della Valnerina con le frazioni appenniniche che si ripopolano degli emigrati (nella maggior parte da Roma) che fanno ritorno a casa dei genitori dove sono cresciuti e integrando un concetto di una malcelata ruralità di facciata perché nulla di più terribile di vivere l’appennino con la mentalità di cittadino e svilendone la poesia degli antichi fasti, ma è l’unico momento che vengono ad essere riempite di persone appagate e amplificando il concetto del nostos (νόστος), cioè il ritorno alla Patria/Nazione/casa che viene svilito nei tempi bui atmosferici degli inverni.

Ne consegue che è un proliferarsi di processioni di qualche santo protettore intervallato dalla riapertura delle pievi serrate che sono scrigni di bellezza a volte depauperata da preti affaristi che si sono venduti anche il mondo, ma che provocano – in ogni caso – il sorriso antico di bimbo nelle persona adulta che vede nei lumini e candele il ricordo di una spiritualità fatta oggi di simboli e di totem scaramantici.

La gaiezza di queste feste culmina con pranzi all’aperto dove abbonda il prodotto locale che assurge a nuova gloria nei palati imbastarditi delle grandi città dove il sapore viene omologato verso il basso.

E in tali luoghi, fatti di odori di mentuccia e maggiorana, intervallati dalle braci del sapere culiniario che si consumano le estati degli umbri più avveduti e non per questo meno esigenti laddove la porchetta dal costo irrisorio è andata a sostituire il piatto con la emulsione di un volgarissimo aceto balsamico comprato al discount.

La questione sta in tutto ciò che monsignor Escrivà de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei affermava e cioè ritrovare la gioia delle cose piccole.

Solo in tale modo, fuggendo il consumismo destinato alla pubblicità su Facebook con una foto per far vedere in che posti si è andati, si ritrova la vera quiete feriale che consiste principalmente di essere votati a non avere rotture di palle e ritrovarsi tra gli affetti sicuri.

Non certo li ritrovano a Dubai o Formentera e gli umbri, quelli solidi che non rinnegano il mondo rurale, lo hanno capito spendendo poco pensando di ritrovare lo spirito mentre aumenta il colesterolo da porchetta e salsicce.

Una parentesi feriale per poi ritornare nell’abisso.

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