Il 28 dicembre 1895 è ufficialmente la data di nascita del cinema. Quasi 100 anni dopo, nella stessa giornata, il divin codino conquistava il Pallone d’oro
La settima arte. Così fu definita nel 1921 da Ricciotto Canudo, per la capacità di unire l’estensione dello spazio alla dimensione del tempo, la cinematografia. Il primo film della storia fu proiettato dai fratelli Auguste e Louis Lumière al Salon indien du Grand Café a Parigi. Lo spettacolo era composto da 10 cortometraggi, di circa 45-50 secondi ciascuno, il primo dei quali s’intitola La Sortie de l’usine Lumière (L’uscita dalle officine Lumière). I due imprenditori raccontavano scene di vita quotidiana. Nell’arco di dieci anni il cinema diventa un genere popolarissimo in grado di modificare gli immaginari collettivi. Georges Méliès, presente alla prima proiezione del cinematografo, nel 1896 fonda la casa di produzione Star Film, che tra il 1896 ed il 1913 realizza più di cinquecento film, sperimentando vari generi e tecniche. Al contrario dei fratelli Lumière, Méliès non aveva un approccio commerciale ma creativo. Il titolo del suo film più famoso, Le Voyage dans la lune (Viaggio nella Luna, di cui ricorrono i 120 anni dall’uscita essendo del 1902) è emblematico. E’ riconosciuto infatti come il padre del montaggio, degli effetti speciali e del cinema fantastico. Con lui il cinema non filma la realtà ma crea finzione, generando principalmente divertimento.
In questo simbolico passaggio tra l’uscita dalla fabbrica (dove lavorava da adolescente col padre) all’ingresso nell’olimpo calcistico (la conquista dell’ambizioso trofeo individuale ne sancisce la consacrazione) dove ci ha fatto viaggiare in un’altra dimensione, e non solo sulla Luna, colloco la parabola cinematografica di Roberto Baggio, idolo nazionale che ha trasceso tutte le tifoserie. La famiglia Lumière aveva un cognome premonitore. Infatti la luce, in ogni sua forma, fu la protagonista di tutte le loro invenzioni. Al divin codino non serviva neanche il cognome per brillare tanto che Bruno Pizzul lo chiamava semplicemente Roberto. In campo era l’incarnazione della metafisica. Per proiettarci nei suoi dribbling indimenticabili, infatti, ha sfidato le leggi della fisica, superando ogni difficoltà incontrata a causa delle ginocchia malandate o delle decisioni ingiuste da parte degli allenatori. A lui era richiesto solo essere se stesso, manifestando la bellezza senza schemi, il puro genio, l’ineffabile che delizia lo spettatore per attimi irripetibili che profumano di eterno. Quando si pensa a lui rimane il gesto perfetto, naturale, essenziale, privo di ostentazione e – apparentemente – di sforzo.
A proposito della manifestazione del divino che irrompe nella norma trasformandola in sublime, viene in mente il famoso stop a seguire e gol su lancio di Pirlo in uno storico Juve-Brescia finito 1-1 (era il primo aprile 2001). Roberto Baggio, a 34 anni e con tutti gli infortuni subiti, riesce ad agganciare e smarcarsi da Van Der Sar al volo, andando in rete con una velocità ma al contempo eleganza, che sembrano impossibili. Lui riesce ad unire in quell’attimo lo spazio-tempo di cui parlava Canudo a proposito della settima arte. La bellezza è ardua ma ha le sembianze della semplicità. Roberto ha sempre affermato: “io volevo solo giocare a pallone”. A lui non interessano i chiacchiericci, il clamore della fama, i rancori sterili. Esiste solo la sua arte ed attraverso di essa parla. Non è un caso che dopo la fine della carriera ha deciso di sottrarsi al clamore mediatico. Venuta a mancare l’espressione artistica è tornato alla sua dimensione congeniale, quella del silenzio. La natura, proprio come lui, si esprime muta e potente, aprendo bocca solo per migliorare quel silenzio, generando stupore, lo stesso del pubblico alla prima dei fratelli Lumière o davanti ad una qualsiasi prodezza di Roby Baggio.