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giovedì, Aprile 10, 2025

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“Quel Male Detto Amore”, l’autobiografia di Valentina Azzini da leggere tutta d’un fiato

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Valentina Azzini, pittrice, scrittrice, studiosa di temi esoterici e di psicologia trans – personale nell’ambito della formazione come counselor spirituale, esordisce nel mondo della letteratura con il libro autobiografico “Quel Male Detto Amore”. Questo è un libro dedicato al figlio Leonardo, affetto da sindrome di Down, e che grazie alla sua nascita è riuscita a consacrare la sua promessa di servizio alla vita. Rimane una scelta personale e dettata dal proprio karma, “perciò al di là di ogni possibile giudizio”.

Valentina Azzini

È un libro autobiografico, quanto tempo hai impiegato per portarlo a termine?

“Ho iniziato la stesura nel 2019 per finire nel 21. Ho sempre avuto un’ampia raccolta di diari sui quali ho registrato tutti i tratti salienti della mia vita fino ad oggi per cui non ho fatto fatica a scriverlo. Ma non ero intenzionata a pubblicarlo. È nato come un viaggio introspettivo di profonda autoanalisi che attraverso la rilettura mi ha consentito di allontanarmi dal mio personale punto di vista e guardare il disegno di insieme con occhi più comprensivi. Il messaggio che la vita mi ha portato si è poi delineato così bene che ho deciso di condividerlo pubblicando il libro. Ed è infatti il messaggio che porto in tutto quello che faccio, sia nell’arte che nella scuola che ho fondato. Esiste un filo conduttore che unisce tutto ciò che esiste, le persone come gli eventi. Questo filo ci attraversa con le tinte forti oppure tenui che le nostre emozioni, le nostre idee le nostre convinzioni sono capaci di evocare, disegnando la realtà che forma le nostre vite, la nostra storia. Quando usciamo dalla percezione limitata del nostro ego, riusciamo a scorgere bagliori di quel disegno ultimo che è la sintesi ricca di ogni significato, quello che le filosofie Perenni chiamano Coscienza dell’Unità. In questa dimensione tutto assume un senso solamente in relazione al resto del tutto. Non esistono più parti (identità separate io-tu) ma un unico immenso organismo che vibra, si cela e si manifesta al di là del bene e del male. Guardando la vita in cerca di questa Sintesi la sofferenza a cui l’uomo è soggetto acquista un valore ed un significato sacro perdendo la sua tragicità. Tutto diventa ‘accettabile’, indispensabile, utile. E pian piano, perdendo l’attrito che l’uomo provoca cercando di ‘combattere’ i propri demoni, si avvicina alla vera benedizione dell’accettazione. Alla felicità. Perdendo la propria piccola personalità guadagna il vero infinito e profondo sé”.

Quale momento del racconto è stato quello più complicato da scrivere?

“La prima relazione, quella con il Massimiliano del libro e l’ultima, Alessandro. I due momenti più intensi, i cui ricordi sono ancora vividi e taglienti”.

Hai vissuto una giovinezza piena di esperienze non solo a livello lavorativo, ma c’è qualcosa di cui ti penti o che non rifaresti?

“Ripensandoci, eviterei qualche cavolata non riportata nel libro! Di ciò che ho scritto rifarei ogni cosa, considerato che sono proprio quei passi ad avermi condotto al momento presente”.

Così ci incuriosisci, una cavolata che non troviamo nel libro. Si può sapere?

“Non scenderò nei dettagli, altrimenti l’avrei scritta! Diciamo che se avessi saputo allora come conosco oggi il significato esoterico e ‘costellativo’ dell’unione sensuale e sessuale con i partner probabilmente non avrei mescolato le mie energie con alcuni individui, il sesso è sacro. E può essere una porta, se non ‘la’ porta, per la trascendenza, ma va vissuto con degno rispetto e con sacralità, appunto. Non posso dire di averlo fatto fino a circa sette anni fa”.

A questo punto ci sei arrivata negli anni o c’è stato qualcosa di bello e specifico che ti ha portato a questo ragionamento?

“Si, la scoperta e la pratica della meditazione ha risvegliato in me ricordi di conoscenze antiche. Il significato esoterico di ogni gesto ed il potere della parola e della mente. Inevitabilmente poi segue la responsabilità di ogni proprio vissuto, e non è più possibile demandare alla ‘sfortuna’ gli eventi della propria vita”.

Infine, ti chiedo: leggere il tuo libro, può aiutare a risvegliare qualcosa in noi? Perché consigli di leggerlo?

“Quando ho capito che tutte le difficoltà passate non solo non erano causate dalla sfortuna o dal caso ma dal mio modo di percepire i rapporti, dato in parte dalla genetica e in parte dalla mia personalità forgiata in questo preciso periodo storico di incarnazione, ho capito anche che tutte le sofferenze attraversate erano state utili, indispensabili per costruire la valigetta degli attrezzi con cui oggi ho deciso di dedicarmi agli altri. Il libro illustra una tecnica per poter osservare e riconoscere da molto vicino le proprie ombre e trasformarle nei propri punti di forza, come ogni percorso esoterico di presa di coscienza chiama a fare. Questo è un fondamento del pensiero tantrico orientale oltre alle mille altre sfumature meglio note della stessa disciplina. Il libro spero possa dare una speranza, una visione oltre il buio della paura e della disperazione a quelle persone, spesso donne, che come me hanno dimenticato la loro identità in cerca di un amore malato. Agli uomini può delineare chiaramente il turbine emotivo che si cela dietro una donna ferita, una di quelle donne spesso definite dagli stessi uomini ‘leggera’, e forse questo può servire a cambiare in loro il giudizio severo e maligno. Ma soprattutto questo libro racconta come dietro a tutte le nostre piccole vite si nasconde un giostraio, anima dello spettacolo, che muove i fili di ognuno di noi, intrecciando i nostri destini per accompagnarci lungo il percorso di evoluzione previsto per questo pianeta. Questo architetto è l’amore stesso, il principio primo da cui tutto ha origine e torna: l’Uno. Prima ce ne rendiamo conto e prima ci sarà possibile danzare con lui, fluire con la vita stessa senza conflitti. È un libro esoterico e transpersonale. Può non piacere, non essere compreso nel suo intimo significato, ma pubblicarlo è stato il mio dovere e personale ringraziamento all’amore reale”.

Napoli, inaugurata mostra “Degas il ritorno a Napoli”

Al Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore di Napoli è stata realizzata la mostra d’arte “Degas il ritorno a Napoli”.

Inaugurata nel fine settimana scorso, resterà aperta sino al 10 aprile, la mostra è dedicata a Edgar Degas. L’esposizione, realizzata da Navigare srl in collaborazione con il Comune di Napoli e curata da Vincenzo Sanfo, raduna quasi 200 opere in totale, delle quali 88 dell’artista francese, che visse a Napoli una delle più importanti tappe della sua vita e formazione artistica.

Vincenzo Sanfo, curatore della mostra dedicata ad Edgar Degas

Ѐ noto che il pittore e scultore Edgar Degas (1834 – 1917) coltivò sin dalla giovinezza uno stretto rapporto con l’Italia e con Napoli eppure mai, fino ad oggi, la città ha ospitato una mostra a lui dedicata. Per la prima volta in assoluto, dal 14 gennaio fino al 10 aprile, Degas, il ritorno a Napoli celebra finalmente quel legame, con una selezione di quasi 200 opere originali esposte nella Sala del Refettorio del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, a pochi passi da Palazzo Pignatelli di Monteleone, residenza del nonno paterno e di parte della famiglia, meglio conosciuto come Palazzo Degas.

Una mostra divisa in tre aree

La mostra è stata realizzata e divisa in tre aree tematiche. La prima, riferita agli anni giovanili di Degas, ricostruisce le atmosfere della Napoli di fine Ottocento, attraverso immagini storiche e l’analisi del ritratto del nonno Hilaire De Gas, primo importante dipinto realizzato a Napoli dal futuro pittore impressionista, e quello della famiglia Bellelli, suoi parenti, proposti in mostra in una riproduzione multimediale.

Con la seconda sezione, dedicata ai temi distintivi dell’arte di Degas: ballerine, prostitute, cavalli da corsa e café-chantant della Belle Époque, l’esposizione entra nel vivo con una galleria di disegni, studi preparatori, numerose incisioni tra monotipi, litografie e xilografie, e tre sculture in bronzo. Tali opere risultano fondamentali per comprendere a pieno l’arte del “pittore delle ballerine”.  L’attenzione alla forma e al segno, che si realizza attraverso lo studio, l’imitazione dei grandi maestri della pittura italiana oltre che del neoclassicista Ingres, insieme all’esercizio del disegno, lo accompagneranno fino alla morte. Il disegno, per Degas, rivela molto meglio della pittura la vera personalità di un’artista. Anche quando entrerà nel gruppo degli Impressionisti e si dedicherà al colore, Degas non abbandonerà questa convinzione.

Accanto alla produzione di disegni e incisioni dell’artista, rappresentata dalle serie La Maison Tellier e La Famille Cardinal e, in facsimile, dal Carnet di disegni per Ludovic Halévy, spiccano in questa esposizione numerosi altri celebri artisti tra cui Pablo Picasso (acquaforte Degas e Desboutin, serie La Celestine) e Jules Pascin (disegni a inchiostro Maison Close). A corredo dell’esposizione anche una selezione di volume d’epoca dedicati alla persona e all’artista Degas.

La terza area tematica riguarda aspetti più mondani della vita di Degas, le sue frequentazioni con altri artisti e gli anni più tormentati della sua esistenza minata dalla cecità. In questa parte della mostra, sono esposte opere pittoriche e grafiche di artisti napoletani, come Filippo Palizzi, conosciuto alla Reale Accademia di Belle Arti di Napoli, con il quale Degas condivise il dissenso per l’insegnamento accademico. L’area ospita anche altri illustri artisti come Domenico Morelli, Frank Boggs, Giuseppe Canova, Ferdinando Pappacena e Édouard Manet, con il prezioso olio su cartoncino Vase de fleure.

Infine, trentaquattro fotografie realizzate da Degas, provenienti dalla Bibliothèque Nationale de France, evidenziano l’interesse di Degas per la recente invenzione quale strumento di studio per il movimento del corpo umano e dei cavalli, accolta da molti Impressionisti.

Tv e social, da 15 minuti di celebrità all’invasione degli imbecilli

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Karl Popper (1902-1994) era uno strenuo difensore della libertà ed era un fiero avversario ad ogni forma di totalitarismo.

Egli attribuiva alla televisione la capacità di agire in maniera inconscia sul pubblico, imponendo modelli di riferimento e gusti individuali e spingendolo ad adeguarsi in modo passivo a certi standard di opinione e di comportamento.

Quindi una sorta di totalitarismo televisivo sostituito oggi da Facebook.

Non per nulla, nei programmi televisivi, in generale viene invitata una sola persona che ha un pensiero divergente rispetto agli altri ospiti e viene generalmente massacrato tra il godimento di chi ascolta.

E accade anche sui social.

Non di meno il grande pensatore de noantri, il semiologo Umberto Eco (1936-2016) ebbe ad affermare che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

E se scrivo anche io forse tutto questo torto Eco non lo aveva.

Il problema, infatti, nasce con l’uso smodato dei social laddove ognuno può dire la sua con buona pace di Basaglia e decretandone il suo fallimento quando ci si accorge che anche la persona meno colta o meno accorta – decidete voi – si sente in dovere di esternare il suo pensiero su tutto, in funzione di un like messo, invece, a caso con il risultato che dovrebbero essere riaperti i manicomi.

Inutile dire che siamo un popolo di 60 milioni di meteorologi, allenatori di calcio, di presidenti del Consiglio e chi più ne ha più ne metta e il tutto intervallato – spesso e alla faccia della parità dei sessi – da tette poderose e sederi che sono patrimonio Unesco.

Perché Facebook – non ricordo chi lo disse – è sostanzialmente un ruttodromo.

Si è passati da una dipendenza (la televisione) ad un’altra (i social) e ne viene svilito il confronto fonetico in presenza dal momento che, quando ci si interfaccia con una persona reale, emerge spesso la quintessenza di quello che si è: imbecilli ignoranti.

La via del male era cominciata quando sono iniziati a girare gli e-book che hanno tolto quella linfa vitale che era il profumo e il fruscio di una pagina di carta con il risultato che mi accade sovente di avere miei conoscenti che si disfanno della loro biblioteca a prezzi stracciati e da me considerati dei folli.

Certo che Andy Warhol (1928-1987) aveva visto lungo quando affermò che 15 minuti di celebrità non si negavano a nessuno, convinti di raggiungere la fama eterna, ma non aveva previsto che con l’avvento dei social e degli influencer, il suo aforisma si sarebbe avverato.

L’uso dei social quindi come mezzo inusuale, ma costante della comunicazione che svilisce irrimediabilmente il concetto di logos (λόγος) e di conoscenza anche dell’altro.

Sembra che ci si siano accorciate le distanze che, invece, rimangono incolmabili.

Ad esempio: è morto Gianluca Vialli – il noto calciatore – e cosa fanno i miei connazionali?

Scrivono Ciao Gianluca, mi mancherai, quasi si conoscessero realmente, ma sfociando nel ridicolo.

Si è perso, quindi, il senso della misura e della riservatezza.

Si scrive del proprio stato di salute o di un lutto togliendo a entrambe le faccende quella sacralità misteriosa non tanto per condividere un percorso, quanto per il recondito motivo di suscitare l’attenzione del follower di turno che raramente sfocia in compassione, dal momento che il giorno dopo tutto è finito.

Mentre il dolore continua a galoppare silente e solo.

Questo comporta inevitabilmente una amplificazione della solitudine che, invece, viene pilotata come pensiero unico e mal gestito, perché l’amico fidato non è più una persona in carne ed ossa, ma Facebook con tutti i limiti ad esso connessi.

Si arriva, quindi, a pensare allo stesso modo politicamente corretto e con la censura fascistissima di Facebook stesso quando ritiene che qualcuno sia andato fuori dal seminato, dimenticando che è un social americano che incarna lo spirito dei Pilgrim Fathers puritani.

Li chiamano social, ma di sociale hanno ben poco perché sono lo strumento maldestro e spesso maleducato per esprimere – in maniera narcisistica quando ogni giorno si cambia la foto del profilo credendosi piacenti, ma in realtà orribili – la propria presenza nella società laddove non verrebbe altrimenti notata.

Un veicolo che sembra fornisca libertà quando in realtà è un mezzo di coercizione pilotato sul vecchio detto panem et circenses.

Un argomento che rimbalza per giorni, come ad esempio la fine della storia di amore tra Ilary e Totti.

E stupidi a leggere, ma ancor più chi ne scrive.

Quindi Popper aveva ragione, anche se lui parlava di televisione, ma avendo centrato il drammatico problema, ribadito da Umberto Eco.

E spesso Facebook è complice per immaginarie storie d’amore sulla base di tre like consecutivi da parte della bona/del bono di turno che si degna di attenzione quando in realtà – appena si incontrano e se si incontrano – non riescono nemmeno ad offrirsi un caffè come gesto di minimo sindacale di cavalleria.

Ma poi ci sono gli incidenti di percorso che dovrebbero far riflettere: se Alberto Angela è ancora seguitissimo e fa il massimo dello share, sui social cominciano ad affacciarsi timidamente pagine interessanti sugli argomenti più disparati dove – guarda caso – l’imbecille di turno rimane muto.

Questo è forse il futuro cioè “obbedire il meno possibile, senza essere ribelle” come auspicava Joseph Marie de Maistre.

Quindi non si tratta di essere ribelli, ma liberi nel pensiero.

Impossibile.

“Canova. Nel marmo vive la carne”, Perugia celebra il maestro del Neoclassicismo

Spettacolo scritto, diretto e interpretato da Stefano de Majo. Iniziativa a cura della Fondazione Perugia e Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci, promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Perugia

Canova è lo scultore che ha lavorato per gli uomini più importanti della sua epoca, da Napoleone a Pio VII ed era chiamato “il novello Fidia” per l’ispirazione al neoclassicismo delle sue opere.

Come risulta all’Archivio di Stato di Terni, l’artista ha lungamente soggiornato a San Gemini e nei primi dell’800, acquistò dei beni, come terreni e alcuni immobili, nel centro storico.

Per l’artista, che in vecchiaia ha avuto notevoli problemi di salute, San Gemini voleva dire cure termali e riposo.

Proprio per celebrare i personaggi illustri che passarono per l’Umbria, Canova chiuderà a Perugia la mostra su Canova il prossimo lunedì 16 gennaio a Palazzo dei Priori sulla piazza IV Novembre che ha appena salutato il nuovo anno con la trasmissione televisiva di RAI Uno.

Si tratta di uno spettacolo multisensoriale scritto e interpretato da Stefano de Majo, che unisce il teatro, la scultura, la danza, la musica classica e la videoart.

Un viaggio immaginifico e visionario tra palcoscenico teatrale e schermo cinematografico.

Facendo seguito ai successi di analoghe rappresentazioni multidisciplinari, con le quali l’autore recitò di fronte alle immagini in movimento delle opere, grazie alla collaborazione con Paul Harden interpretando personaggi quali Leonardo da Vinci, Caravaggio e Turner, è ora la volta di Canova, lo scultore veneto che apri l’era moderna dell’arte.

Un redivivo Antonio Canova, ci mostrerà in carne ed ossa sulla scena, la sua rivoluzionaria visione di scultura attraverso il confronto con l’amico e rivale danese Bertel Thorvaldsen, con il quale, a cavallo tra il ‘700 e l’ ‘800, rivisitò tutta la visione classica dell’arte scultorea, in un’ottica già contemporanea.

Il confronto tra i due massimi e incontrastati rappresentanti della scultura moderna, farà riecheggiare anche altri grandi personaggi che mostrarono ammirazione per il Nuovo Fidia, da Foscolo a Leopardi, da Stendhal a Napoleone.

La videoart di Paul Harden, le coreografie di Simone Martinelli diplomato all’Accademia nazionale di danza classica di Roma unite ai movimenti scenici della fotomodella Chiara Cavalieri e della flautista Emanuela Boccacani renderanno vive le opere scultoree del Canova, perché “nel marmo vive la carne”

Vincitore del Premio Menotti alla Biennale di Venezia lo scorso 21 maggio nel duecentesimo anniversario e nel luogo della morte del Canova.

Lo spettacolo ha debuttato lo scorso mese di novembre al Terni Falls Festival alla presenza della direttrice del Thorvaldsen Museum di Copenaghen Margrethe Floryan e del ritrattista ufficiale della Corona danese Lars Phisant, è stato poi replicato a Narni, quindi a San Gemini il 25 giugno proprio di fronte al Palazzo di proprietà del Canova in cui lo scultore soggiornò lungamente e a Venezia in occasione della Biennale ricevendo un premio lo scorso 21 maggio.

La replica di lunedì 16 gennaio alle ore 21 a Palazzo dei Priori di Perugia è stato fortemente voluto dal Comune di Perugia unitamente alla Fondazione e all’Accademia di Belle Arti a conclusione della mostra che si è tenuta nel capoluogo umbro dallo scorso mese di novembre, per celebrare il duecentesimo anniversario della morte, forte delle numerose opere che il Canova donò all’Accademia perugina di cui fu socio, menzionandosi nel corso dello spettacolo anche i profondi contatti tra Canova e il territorio umbro.

Per l’occasione lo spettacolo sarà a ingresso libero sino a esaurimento posti.

Stefano de Majo autore e attore teatrale

Formatosi alla scuola di Roma di Anna D’Abbraccio, è stato diretto per tre anni da Gastone Moschin, ha collaborato nel corso della sua carriera con Ben Gazzara, Edoardo Siravo, Carla Gravina, Francesco Salvi, Dacia Maraini, Fabio Bussotti, Riccardo Leonelli, Mariavittoria Cozzella, Luisa Borini, Caterina Rossi.

Nel corso del corrente anno ha ricevuto diversi premi, per le sue due opere teatrali rispettivamente su Canova e Caravaggio.

Lo scorso mese di gennaio al conservatorio di Santa Cecilia a Roma ha ricevuto il premio Cartagine per l’attività teatrale svolta, il 30 aprile a Terni è stato premiato da Maria Giovanna Elmi come “Personaggio dell’anno 2022”, il 21 maggio è stato insignito del premio Menotti alla Biennale di Venezia, il 14 settembre a Firenze il premio Ponte Vecchio e il 24 settembre il premio letterario e teatrale Menotti Festival a Spoleto.

L’attore e autore fu inoltre insignito il 2 giugno 2018, del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana per i meriti professionali nell’ambito della divulgazione della cultura e del recupero della memoria.

“Tutto Esaurito”, la profonda follia di un attore in crisi

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“Tutto Esaurito” è un testo scritto da Rodolfo Fornario che ne ha curato anche la regia, portando in scena generi e linguaggi misti, dal noir alla commedia.

Lo spettacolo che vede solo due attori, ha debuttato a fine ottobre al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno per poi fare tappa per tre giorni al Teatro Serra di Napoli, ma nel 2023 si sono aggiunte nuove date.

Il titolo “Tutto Esaurito” è un gioco di parole per spiegare la crisi di un attore, Gabriele De Angelis, che per attirare l’attenzione, compie un’azione eclatante.

Gabriele De Angelis è interpretato da Ciro Scherma, è un attore sui cinquant’anni, ormai fuori dai circuiti teatrali e dello spettacolo, vorrebbe vivere un’esistenza dignitosa facendo il lavoro che più ama al mondo e quello per cui ha studiato e sacrificando con tutto l’amore. Ovviamente parliamo del Teatro. Ogni qualvolta che Gabriele propone uno spettacolo viene seguito dalla solita cricca di amici e amici di amici affezionati, quasi come “vittime sacrificali” piuttosto che come pubblico attento e appassionato.

De Angelis vorrebbe essere quasi dimenticato del ruolo di cui si ricordano tutti nella pubblicità di una caramella e decide di compiere un atto quasi folle ma studiato nei minimi dettagli. Rapisce la figlia dell’Assessore alla Cultura della sua città, interpretata da Valeria Esposito, e si rinchiudono in un piccolo teatro, il riscatto sarà in diretta nazionale… ma non vi svelo il finale anzi vi consiglio di andarlo a vedere.

L’inizio è forte, duro, incomprensibile quasi, si sentono delle urla, poi compaiono i due attori e fra la rabbia il dissenso, l’inadeguatezza, in quanto l’attore non è un killer, c’è una venatura comica che riesce a strappare parecchi sorrisi durante tutto lo spettacolo. Dalla follia all’amore, sarà che è uno spettacolo particolarmente sentito per un artista soprattutto dopo il periodo pandemico ma questi due attori hanno saputo esprimersi al meglio cambiando ed evolvendosi nelle varie fasi.

Con Ciro Scherma e Valeria Esposito, le voci fuoricampo sono di Oscar di Maio, Benedetto Casillo e Gina Perna. Una produzione Mudra arti dello spettacolo, distribuzione Olimpia Panariello.

“Questo testo rappresenta quello che la maggior parte degli artisti vive ogni giorno, secondo te è un problema dell’attore o dello stato che non tutela in un certo senso questa categoria? – Risponde Ciro SchermaSono diversi i fattori, i giovani non sono incentivati ad andare a teatro e se ci vanno è per vedere i cabarettisti, sono pochi quelli che amano la prosa o la commedia dell’arte. Il teatro oggi è fatto per i vecchi almeno quello ad un certo livello, perché ci sono tanti teatrini piccoli, ecco come gli spettacoli tipo questo che magari i giovani riusciamo a coinvolgerli però non in teatri di un certo livello. Se volessi portare uno spettacolo del genere in un teatro grande, farei un grande flop. Un altro fattore contro è lo stato che non ci ha mai tutelato e stiamo lottando con i sindacati da quando è avvenuta la pandemia, abbiamo ottenuto qualcosa ma è ancora troppo poco, per non parlare dei sovvenzionamenti ad alcuni teatri che c’è uno spreco di soldi che magari andrebbero dati a chi veramente potrebbe fare qualcosa per il teatro. Infine, servirebbe un ringiovanimento del teatro che non c’è, sempre a certi livelli, non nei teatri piccoli, poiché abbiamo sempre gli stessi nomi e le persone vorrebbe qualcosa di nuovo.

“Tutto esaurito teatrale, che ci auguriamo un po’ tutti e quello neurologico – dice FornarioQuesto spettacolo parla di chi, oggi, decide di fare del teatro il proprio unico lavoro e condivide con il pubblico, spesso ignaro, le difficoltà di sopravvivere di teatro, come sottolinea una battuta dello spettacolo, pur facendo cose buone. Non dignitose. Buone. Ma vede i propri spazi occupati sempre più, dai personaggi che vengono dalla televisione più becera”.

Prossime date confermate:

11 e 12 Febbraio Magma Teatro di Torre Annunziata (Napoli)

19 e 20 Marzo Tin (Teatro Instabile) Napoli

Altre date di rassegne e festival sono da confermare ma confermato è l’inizio delle riprese del mediometraggio a cura del regista Loreto M. Crisci.

Serena Martinelli, il fascino della semplicità

Bella, intraprendente, professionale ma soprattutto semplice. Serena Martinelli è attrice, modella e conduttrice. Dopo anni di gavetta e collaborazioni sparse la showgirl riesce a calcare i palchi più importanti spalleggiando anche noti personaggi. E lo fa con stile, senza perdere la sua personalità o mettendosi in mostra sui social. L’impegno, l’efficienza e il duro lavoro l’hanno portata ad essere la donna dinamica che è oggi.

Come è nata la tua passione per lo spettacolo e la moda?

“La mia passione è nata in maniera del tutto inconsapevole perchè sono stati gli altri a vedere in me doti fisiche che mi potessero permettere di iniziare il mio percorso come modella. Frequentavo un liceo per stiliste di moda e alla prima sfilata, con abiti creati da noi, un’agenzia scelse tre ragazze su trentacinque e arrivai seconda; da li è iniziato il mio percorso che poi è definitivamente partito a diciassette anni con l’agenzia ‘Life Service Agency’ di Liliana Ferrari con la quale ancora collaboro. Un sodalizio che va vanti dal 1994. Andando avanti con il lavoro ho sempre pensato di voler aggiungere altre doti mettendomi a studiare recitazione teatrale presso ‘Il piccolo teatro della Versilia’ di Federico Barsanti il quale mi ha dato una preparazione ottima per poter propormi in diversi ambiti lavorativi tra cui televendite, presentazioni e tanto altro ancora”.

Hai partecipato a diversi programmi televisivi affiancando anche noti personaggi a tuo parere  quali sono i lati positivi che hai riscontrato e quali quelli negativi?

“Nel mio percorso lavorativo ho avuto l’immensa fortuna di collaborare con al fianco di diversi personaggi noti al grande pubblico e, devo dire, che sono state le esperienze più positive in quanto ho trovato molta professionalità e poco protagonismo, questo, un connubio perfetto per chi, di questo, ne ha fatto un lavoro ed ha ricevuto i giusti frutti. Ne sono sempre uscita emozionata, soddisfatta e grata per il supporto ricevuto”.

 A una ragazza o un ragazzo che vorrebbe avvicinarsi a queste realtà cosa consiglieresti?

“Spesso vengono da me ragazze o ragazzi che mi chiedono consigli su come avvicinarsi al lavoro dello spettacolo. Anzitutto è giusto dividere il senso di protagonismo dal senso di passione legato a chi si propone per questo lavoro. Purtroppo vedo sempre più persone che credono nella vita facile solo perchè hanno buone doti fisiche ma non è assolutamente cosi. Per questo lavoro ci vuole passione, quella passione che ti spinge ad essere professionale e ad accettare il fatto che, in questo ambiente, non serve essere solo bello o bella ma serve avere voglia di mettersi in gioco dimostrando che ci sono delle qualità che vengono coltivate nel tempo. Oggi con la facilità dei social alcune persone pensano che avere i like o avere followers sia sinonimo di professionalità o successo. Su questo siamo proprio fuori fase. Di una professionista on parlano i like o i seguaci ma parla un percorso di esperienze lavorative fatte sul campo e portate a conclusione con un risultato concreto e positivo; il cosiddetto curriculum che comporta sudore, fatica e tanta tenacia. Quindi ragazzi non improvvisatevi ma studiate e cercate sempre di mantenere alta la vostra serietà lavoratia”.

Si dice che il mondo della tv è spietato oggi può andare bene e domani si rischia anche il dimenticatoio tu cosa ne pensi a riguardo?

“Con il crescere dei reality si è portato ancora più alla luce il parlare di ‘personaggi’ che riemergono perchè dimenticati. Ognuno di loro ha comunque lasciato ricordi indelebili nelle nostre memorie. Per alcuni si riaccendono i riflettori perchè si parla di professionisti che ci hanno regalato emozioni. Lo spettacolo è anche questo ma per fortuna il grande pubblico come lo Star System può accantonare ma non dimenticare del tutto”.

Il tuo è un curriculum notevole quale è stata l’esperienza più significativa?

“Di emozioni lavorative ne ho avute parecchie. Se dovessi metterle in classifica onestamente non saprei quale collocare al primo posto. Ci sono state emozioni forti a teatro nel monologo ‘Corrispondenza negata…Il lato poetico della mente’ scritto da Federico Barsanti, dove ho interpretato una ragazza con problemi psichici che viene abbandonata in un manicomio dalla famiglia nel quale cerco di sensibilizzare sul problema della malattia mentale e di quello che è stata la vita manicomiale prima della legge Basaglia. Qui mi sono messa a dura prova anche perchè ho voluto dimostrare che, anche cambiando la mia estetica in maniera drastica, avrei comunque potuto essere efficace ed arrivare alle coscienze di chi ha assistito al mio spettacolo. La mia forza di volontà mi ha portato anche a sviluppare una recitazione comica, ho avuto il grande piacere di lavorare nel format ‘Aria Condizionata’ al Teatro Petrolini di Roma dove interpretavo un’infermiera rumena che cercava lavoro con insistenza. Ancora, ‘Non ci resta che ridere’ film di Alessandro Paci uscito in tutte le sale cinematografiche italiane con il quale mi sono divertita a interpretare diversi ruoli sempre in chiave comica. ‘Amigdala’ di Lorenzo Ferrante, un bellissimo cortometraggio che ha ricevuto molti premi nel quale interpreto la parte psicologica della protagonista legata alla lussuria ed ambientato nel periodo nazista. ‘Soul Sport’ un evento alla Versiliana, un evento di tre giorni dedicati allo sport dove ho incontrato numerosi personaggi molto importanti e nel quale mi sono messa a dura prova, come conduttrice, su un palco importantissimo”.

Aiuti anche la tua famiglia con il pastificio…

“In molti mi chiedono perchè io continui a dividermi su due professioni cosi differenti. Da più di cinquanta anni, prima i miei zii e poi i miei cugini, hanno il ‘Pastificio Franceschi’ a Viareggio. Una realtà che ha sempre fatto parte della mia vita da quando sono nata e per me significa ‘Radici, origini e famiglia’. e ‘Chi rifiuta le proprie origini è una persona finita’. Provengo da una famiglia di operai e sono orgogliosa di poterlo dire a voce alta, persone semplici ma con un forte senso legato ai valori, quelli giusti ed onesti; quelli che ti portano a restare con i piedi per terra sempre, perchè tu cresca sana e ben salda alle cose che valgono veramente nella vita. Sempre di più oggi siamo continuamente bombardati da immagini o video che propongono falsi miti legati ad una ‘apparenza’ molto spesso fasulla e non riconducibile alla realtà vera dei fatti. Io preferisco rimanere nella mia umiltà la quale è sempre stata presente e che mi ha spinto a restare lucida e a ricordarmi che, nella vita, è bene saper far tutto perchè non sai mai cosa tri può capitare”.

Invece il tuo rapporto con i social come è? Hai pensato mai di diventare anche Influencer?

“Il mio rapporto con i social è strettamente legato al lavoro perchè non pubblico quasi mai post sulla mia vita personale. Non amo farmi i selfie ma preferisco dare un senso ai post che pubblico. Le uniche cose che pubblico extra lavoro sono annunci che riguardano gli animali anche perchè sono una volontaria dell’Associazione ‘Tra le braccia’ con sede a Viareggio che si occupa di salvare, recuperare, curare e portare in adozione animali non convenzionali; ci occupiamo di conigli, cavie, cincillà ed altre specie che, negli ultimi anni, sono entrati a far parte degli animali domestici da compagnia. Influencer? Nella vita mai dire mai ma per adesso è una figura nella quale non mi ritroverei”.

Tra spettacoli, sfilate e pastificio il tempo libero poi come lo passi? Quali sono i tuoi hobby?

“Di tempo libero non ne ho molto ma cerco di sfruttarlo al meglio. Pratico da molti anni Body Building e sono seguita dal famoso coach Vittorio Scialdone; addirittura grazie a lui nel 2018 ho vinto il titolo nazionale di ‘Miss Model’. Da un anno e mezzo sono fidanzata con Alberto, un ragazzo che mi supporta in tutto quello che faccio e che, soprattutto, mi da la carica per affrontare al meglio dei modi nuove esperienze lavorative. Poi nella mia vita c’è Pepito il mio coniglietto che amo alla follia. Lui ha avuto un percorso difficile a causa di precedenti maltrattamenti, ma poi è arrivato da me ed insieme abbiamo cancellato tutto”.

Chi è Serena al di fuori dei riflettori?

“Sempre quella che potete incontrare per strada, su un palco, al supermercato o dietro al banco del pastificio. Non amo cambiare in base alle situazioni preferisco rimanere sempre integra con me stessa e forse, è proprio questa la mia bellezza, quella che non si vede ma si percepisce”.

Invece a quali progetti stai lavorando attualmente e quali saranno quelli futuri?

“Ho appena terminato la conduzione di eventi molto importanti e attualmente mi sto preparando per altri. In questo lavoro l’occasione giusta arriva sempre all’improvviso, quindi, pronta a partire per nuove mete da raggiungere”.

Infine, secondo te cosa è cambiato del mondo dello spettacolo di prima da quello di oggi?

“Sicuramente sono cambiati i modi di pensare. Tra molte persone si erge ‘Un protagonismo senza ne arte e ne parte’. Troppa improvvisazione in questo settore non è giusta secondo il mio pensiero. Nei tempi passati esisteva una gavetta, esisteva un periodo in cui un’artista si poteva formare tramite scuole ed esperienza. Oggi sinceramente no. L’esperienza sul campo come ogni professione serve ad avere più qualità lavorativa e più professionalità. Ma questo, ovviamente, rimane un mio pensiero personale”.

Il “peccato mortale” di piazza del Bacio

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La piazza, costruita negli anni ‘80, è firmata Aldo Rossi, primo architetto tra gli italiani a ottenere il prestigioso premio Pritzker 1990, quello che è considerato il Nobel per l’architettura (dopo di lui solo Renzo Piano).

Personalmente la trovo di una bellezza struggente che ha due gravi nei: il nome della piazza che non le fa onore e il clima irrespirabile al limite del malavitoso.

Una piazza che non rende onore a una splendida città come Perugia.

Ma qui non si parlerà dei possibili rimedi per valorizzare un capolavoro, ma fare l’analisi architettonica della zona e partendo dal presupposto che la piazza, nel suo insieme, può piacere o meno.

Sappiamo che gli italiani sono sostanzialmente dei tifosi su ogni cosa e le contrapposizioni delle opposte tifoserie il più delle volte sfociano nel più italico dei difetti: il livore.

Ma quando si parla di arte o di architettura, prima di dare fiato a parole insensate, si deve avere un briciolo di umiltà e una infarinata di cultura perché altrimenti si rischia di fare la figura di cretini saccenti.

E questo accade spesso, anche allo scrivente e Voi lettori ve ne siete accorti.

Per capire infatti un’opera sono necessari due germogli: la voglia di capire senza pregiudizi e la capacità di documentarsi perché altrimenti tutto rimane solo un sentimento visivo che culmina nella dicotomia bello/brutto.

Germogli che vanno annaffiati ogni giorno.

Aldo Rossi ha sempre affermato che si ispirava alle linee nette della Grecia Antica e quindi paradossalmente al neoclassicismo che ha avuto nuova linfa – a fine ‘800 – nei paesi anglosassoni e in parte della Francia.

La sublimazione di questo neoclassicismo e la rivisitazione italiana di ciò ha comportato in Italia il movimento razionalista, additato come architettura fascista scimmiottata malamente dai tedeschi sotto il nazismo a mezzo di Abert Speer laddove i tedeschi – storicamente – difettano di fantasia a scapito di una esasperante pragmaticità che ha avuto nefaste ed orribili conseguenze a motivo del quale sono invisi ai fantasiosi italiani, tutta anima e core.

Superato questo vaglio è indubbio che la bellissima piazza si ispiri alla architettura razionalista con le sue linee semplici decretandone la condanna a morte all’occhio malevolo di persone che, quando si parla di razionalismo, tradizione, futurismo e via dicendo, hanno un rifiuto a prescindere per abbietti motivi politici.

Ma i più non sanno che Marcello Piacentini, architetto e urbanista che ebbe il suo massimo fulgore tra il 1910 e il 1940, ebbe ad ispirarsi alla metafisica dei quadri di Giorgio De Chirico (come sostiene Philippe Daverio) e non viceversa e che Aldo Rossi lo considera un amico ispiratore ponendo l’orologio nella torre centrale, rendendo un meraviglioso omaggio a tale pittore e ammantando il tutto di nascosta poesia.

Ne consegue che l’orologio assume un aspetto simbolico di richiamo al passato sfociando non nel metafisico, ma nell’onirico e diventando il protagonista assoluto della Piazza.

Ma l’occhio sfuggente e volubile del perugino non nota questo particolare, forse più attento a schivare la possibilità di fare brutti incontri che osservare gli edifici nella loro maestosità o monumentalismo (per dirla alla Piacentini) e non sapendo cosa si perdono nel collegare orologio-De Chirico.

Entrerebbero in una catarsi iniziatica di apprezzare l’architettura con occhio nuovo fatto di impercettibili simboli che danno valore all’anima.

Ma si sa gli italiani sono esterofili e autodenigratori che hanno nello sputtanatore seriale dei difetti de noantri in Beppe Servegnini l’alfiere, troppo amante della cultura anglosassone, pur rispettabilissima come lui.

Perché si ama di più quello che è estero e si grida al genio quando una archistar (come Fuksas o Aulenti) promuove un edificio che nella intenzione deve essere di frattura e imitazione del cementista Le Courbusier con il risultato che spesso e soprattutto la sopravvalutata Gae Aulenti risulta essere una geometra raffinata, basti osservare il museo D’Orsay a Parigi.

In realtà al genio italico del design a tutto tondo non diamo valore perché rimane un mistero che il più bel museo italiano, come la Centrale Acea Montemartini in Roma che raccoglie il meglio della statuaria romana, è sconosciuto.

L’esasperazione architettonica sfocia nel brutalismo in voga dagli anni ‘50 sulla scia di quello anglosassone per dare un nome a edifici che – in realtà – sono veramente brutti come la chiesa Cubo di Rubik, ah no, scusate, di Fuksas a Foligno.

Ne consegue che se Atene piange, Sparta non ride, ma sia i Perugini sia i Folignati -superando la vecchia diatriba guelfi ghibellini – su questo hanno un punto in comune : il senso di spregio sia per la piazza del Bacio sia per la chiesa.

Ma mentre la chiesa folignate ha la sua eternità evangelica, la piazza del Bacio, se non si trovano soluzioni su come arginare la malavita, rimarrà un monumento bellissimo al nulla.

Ma anche in questo caso sopravvive un difetto italiano: progetti di recupero infiniti e soluzioni zero.

Un peccato mortale.

Il fumetto horror di Luciano Gaudino: tra musica Rock e tinte Dark

Ama il disegno, adora lo splatter ed è appassionato di musica Rock e Dark. Luciano Gaudino, nato a Formia nel 1984, per i suoi fumetti unisce tutti questi elementi. Il fumettista deve molto a disegnatori come Ugo Pratt e l’ argentino Luis Royo. Dopo “Topolino” inizia l’Amore per “Natahn Never” della Sergio Bonelli Edizione e da questo momento inizia il suo percorso artistico. Lo stile che adotta è cupo, a tratti noire e nelle vignette che crea si nota tutto il talento.

Come è nata la tua passione per il fumetto?

“La mia passione per il fumetto è nata da bambino, quando accompagnai mio padre per la prima volta in un edicola del mio paese e mi innamorai subito di un fumetto casa Bonelli che è “Nathan Never” (oltre i primissimi classici di “Topolino”) adoravo i disegni e quel tipo di narrazione più “adulta” che oltre a leggere mi portò poi a riprodurre cercando di imitare lo stesso tipo di tratto dei miei eroi su carta”.

Chi sono i disegnatori o gli eroi che ti hanno influenzato?

“Oltre i vari disegnatori italiani come Ugo Pratt, Serpieri e Manara, l’influenza maggiore l’ho avuta con Luis Royo (illustratore argentino) che mi catapultò in un mondo più fantasy dark e horror e come tanti teenagers degli anni 80 non potevano mancare i tanti anime e cartoni giapponesi a marcare le mie idee e storie. Se dovessi scegliere un fumettista in particolare direi di certo Luis Royo e James O’ Barr”.

E’ uscita la tua seconda opera, un continuo del tuo fumetto d’esordio “Nato dal Sangue”. Cosa puoi raccontarci in merito?

“Sí ho lavorato al secondo volume, un sequel del precedente di “Nato dal sangue” che ha lo stesso nome ma denominato con “Flagello immortale”. La trama non è altro che il seguito della prima opera che ho realizzato, solo che vengono a galla un po’ più di omissioni fatte nel precedente con qualche nuovo personaggio e qualche filo di eros in più”.

Nel frattempo sei a lavoro sulla terza e ultima storia di “Nato dal sangue”?

“A causa di forze maggiori come la pandemia il terzo volume ancora non ha visto luce e ancora è da sviluppare, ma sí sarà l’epilogo di questa saga”.

La musica Rock e quella Dark hanno avuto un ruolo importante nei tuoi fumetti?

“La musica ha sempre fatto parte di me, credo che ogni viaggio, ogni azione che compio non l’ho mai fatta senza di essa, credo che ci voglia sempre una colonna sonora per ogni tipo di azione che compiamo, soprattutto per quando si fa arte, d’altronde non si è mai fatto un film senza una buona colonna sonora”.

Il tuo talento ti ha portato anche a realizzare alcune copertine di libri è corretto?

“Sí, nel frattempo che ho affrontato altre cose, lavorativamente parlando ho sfornato qualche copertina sempre per la LFA publisher di Lello Lucignano, che ringrazio sempre infinitamente per le varie opportunità e soddisfazioni che mi dà.

Per un fumettista oggi che tempi sono?

“Credo che per un fumettista attualmente le difficoltà non siano poche, credo che la differenza la fa sempre il pubblico, senza un pubblico che ami ciò che fai o che sia amante di quel genere per un fumettista è dura, metti anche che molte cose ora si trovano in rete a costo zero, quindi se si vuole vedere come un lavoro certo non può assolutamente farlo”.

Ci sono altre collaborazioni in vista?

“Al momento non ho nessuna collaborazione in programma, continuo a fare quel che mi piace e che mi aiuti a migliorare, ma credo che l’unico progetto è l’ultima parte del mio fumetto”. 

Vivienne Westwood, la regina delle provocazioni che hanno fatto la storia

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La storia del globo imperiale e il manga Nana

Siamo negli stravaganti anni Settanta, il diritto di voto a 18 anni, la rivoluzione culturale con gli hippy dalle lunghe barbe e capelli. In Inghilterra viene eletta la cosiddetta Lady di ferro, ovvero Margaret Thatcher e in una contea dell’Inghilterra precisamente a Glossop nel Derbyshire si faceva spazio Vivienne Westwood.

Vivienne Isabel Swire, meglio conosciuta come Vivienne Westwood, studia oreficeria e moda alla Harrow Art School, proiettandosi verso l’insegnamento, ma poi si mette in società con Malcom McLaren (del gruppo dei Sex Pistols) e apre nel 1971 un negozio “SEX” sulla King’s Road.

Sin da subito riuscirono a farsi spazio nel fashion system, difatti nella loro boutique si potevano trovare i capi più impensabili e straordinari inizialmente ispirati al mondo dei motociclisti. Ogni capo o accessorio all’interno di quel negozio era adatto sia per uno stile ricercato che per le pratiche sadomaso!

Una moda inusuale nei materiali e nei modelli

Le t-shirt attillate dalle quali escono i seni, le stampe con frasi erotiche, i materiali in pelle, cuoio, gomma, borchie, fibbie, lacci, ruches; la crinolina pieghevole, i twin set da uomo con le perle e le scarpe feticiste, e l’uso dei simboli della corte britannica in modo sarcastico, sono solo alcune delle innovazioni della Westwood. Contribuì alla nascita dello stile punk, divenendone la Madrina e vestendo proprio i “Sex Pistols” dal loro look composto da vestiti strappati, capelli corti, spettinati, colorati, sadomaso-fetish, giubbotti e pantaloni in pelle, catene, borchie, spille da balia, lucchetti usati come collane, collari borchiati, svastiche, lamette, creò uno dei più bei scandali e movimenti ribelli della storia della moda.

A proposito di scarpe, Vivienne Westwood fu la prima stilista a portare in passerella negli anni ’80 le scarpe sportive, quando ormai il pret-à-porter prendeva il sopravvento proponendo uno stile urbano.

Le prime collezioni di Vivienne Westwood

Il primo défilé risale al 1981 in cui presenta la collezione “Pirate”, un pirata romantico, modelli antichi in chiave moderna con gonne multistrato, la tournure, (un rigonfiamento elastico da apporre sopra la gonna), corsetti, ruches, cappelli e stivali da pirata. Torna sulle passerelle nel 1982 con la collezione Savage dal look tribale, con tessuti grezzi e non ridefiniti. La collezione “Nostalgia of Mud” del 1982/1983 si ispira alle culture del Terzo Mondo: gonne, sottovesti, borse a tracolla per neonati, felpe con cappuccio, tessuti stropicciati e tagliati in modo rude. Collabora all’ultima collezione con McLaren lanciando la collezione “Witches”, da strega, con maniche enormi, pantaloni a sbuffo, cappelli a cilindro e l’uso del reggiseno sopra ad altri indumenti. I colori tetri e appariscenti, deve stupire e lo fa sempre.

Nel 1989 diviene docente di moda all’Accademia di arti applicate di Vienna e a Firenze, sempre espone la sua prima collezione di abbigliamento maschile.

La collezione Anglomania del 1993/1994, con il mini-kilt, tartan scozzese, abiti e tweed, unisce lo stile mascolino allo stile tradizionale inglese. In futuro proporrà abiti voluminosi dai lunghi strascichi e la novità delle scarpe con il plateau esagerato ispirato sempre al mondo del feticismo, arricchita con elementi metallici. Poi lancerà una linea di profumi e nuovi marchi.

Ecco alcuni dei premi più importanti ricevuti

Fra il 1990 e il 1991 la stilista vince il British Fashion Award come Designer of the Year e alcuni anni dopo arrivano altre tre vittorie: Red Carpet Designer (2006), Outstanding Achievement in Fashion Design (2007) e Swarovski Award – Positive Change (2018).

La storia del globo imperiale e il manga Nana

La regina Elisabetta nel 1992 conferisce a Vivienne il Most Excellent Order of the British Empire per il suo lavoro nell’industria moda. Si presenta davanti alle telecamere con una gonna grigia, fa la ruota mostrando che non indossa biancheria intima. Nonostante ciò, le sue creazioni con il globo imperiale, ispirarono l’opera della mangaka Ai Yazawa non solo autrice del manga “Nana” ma anche grande appassionata e studiosa di moda.

La storia racconta di due ragazze di 20 anni di nome appunto Nana legate dal destino: siedono vicine sullo stesso treno per Tokyo e vogliono cambiare le loro vite. Nana Osaki e Nana Komatsu andranno a vivere insieme e condivideranno la speranza di una vita migliore. Tokyo è una città ricca di cultura, in cui vivranno tante avventure, la prima cercherà di diventare una celebrità del punk rock e Komatsu di cercare il proprio posto nella società.

Nel manga, gli abiti si ispirano alla moda giapponese degli anni ’90, ma c’è un particolare: il globo imperiale della Westwood. In ogni vignetta appare un elemento ispirato alla stilista britannica dal suo globo imperiale sottoforma di accessorio o semplice accendino, ai modelli visti sulle passerelle comprese le calzature!

Vivienne Westwood oltre ad essere una stilista, una costumista, una designer, una docente, è stata attivista contro il riscaldamento globale, per l’indipendenza della Scozia, per i diritti LGBT, il vegetarianismo e la moda etica. Infine, vanta di alcune esperienze come attrice e collaborazioni discografiche. Insomma una donna rivoluzionaria che ha saputo trasmettere tutta sé stessa senza limiti.

La politicizzazione della Chiesa

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Riflessioni sul futuro del cattolicesimo dal Concilio Vaticano II alla morte di papa Benedetto XVI

Julius Evola nel 1963, a conclusione del Concilio Vaticano II scrisse le sue considerazioni su tale evento e tuonando contro lo stesso, tanto da avere la reprimenda del Santo Padre del tempo.

Custode delle tradizione in senso etimologico e profondo studioso dell’esoterismo, è sempre stato l’anima di una destra spirituale di grande diffusione nonostante una sostanziale illeggibilità del suo italiano perché la sintassi era – come costruzione della frase – il latino.

Un pensatore che sta alla destra come l’irraggiungibile Gramsci sta alla sinistra e da me letti entrambi.

Ma se il secondo era più concentrato sul materialismo a difesa degli oppressi sino a scontarne le estreme conseguenze carcerarie e di confino, Evola – tacciato anche di essere l’ispiratore di vari terroristi neri, ma uscendone assolto – puntava il dito con lo svilimento dell’individuo assoluto e il suo mancato còmpito di essere prevalentemente spirituale al punto che scrisse un libro – ovviamente ostracizzato – dal titolo Razzismo spirituale.

Sdoganato recentemente da Paolo Mieli del Corriere della Sera su Rai Storia e successivamente da Vittorio Sgarbi in una bella mostra di Evola pittore futurista al Mart di Rovereto, le sue parole dette nel 1963 risultavano profetiche, al punto che con la morte di papa Ratzinger è venuto meno un modo di fare Chiesa e di essere Chiesa.

Renè Girard – cattolico – morto a 91 anni, ebbe il suo daffare a cercare – all’interno del sacro – quel sentimento che poi è diventato dapprima il motore dei romanzi e poi del mondo con il concetto del mimetismo, cioè quel desiderio di vivere al meglio le esperienze altrui che – fallendo – hanno fatto nascere il capro espiatorio.

Cioé quando il fallimento del sé trova linfa in colpe di altri che ne sono anche ignari e creando sia l’invidia che gli alibi.

Ma si potrebbero scrivere pagine su pagine di filosofi e pensatori che hanno cercato di dire la loro su questa deriva morale di valori che – nella società di oggi – vengono assimilati ingiustamente alla destra stessa quando in realtà ci sono certi passi di Gramsci tratte dalle Lettere dal carcere, che sono illuminanti e che trovano il seguito ideale in lettere ad una professoressa di don Lorenzo Milani.

Tanto per dire che se un valore è assoluto diventa patrimonio di tutti, ma basta capire se si cerca più il bene spirituale che materiale, la vera battaglia tra una certa destra e una certa sinistra.

In questo contesto malevolo e fatto di reciproche prevaricazioni, papa Ratzinger è stato – da fine teologo – un punto di frattura e di ritorno ad un impossibile passato recente con l’avvento della Chiesa nel terzo millennio come una prestigiosa società per azioni.

Aveva il Santo Padre morto da poco, che ha lasciato parole indelebili, sul modo di vedere Cristo che culminano nella frase non mi preparo per una fine ma ad un incontro, una spiritualità non capita e non voluta capire al punto che nel 2006 fu massacrato da tutti per il suo celebre discorso a Ratisbona, cercando di coniugare Fede e Ragione (quasi un filosofo neoellenico) a motivo del quale ebbe a dire che Dio non si compiace del sangue.

Una forte critica ad un certo mondo dell’Islam.

Cominciò la sua parabola verso il basso agli occhi degli sprovveduti che iniziarono a dargli del nazista, del connivente alla pedofilia dei preti e – poco ci manca – come ispiratore degli attentati alle Torri Gemelle a New York.

Da parte dei soliti noti e di giornalisti prezzolati.

Ma aveva capito – prima di tutti – la deriva della Chiesa come faro spirituale insito in ogni uomo laddove ha perso la via dell’ascesi, della trascendenza e della profonda meditazione – che sfocia nella preghiera – come elemento utile per raggiungere il vero Cristo e ridare alla Chiesa quella purezza primordiale di santità a tutto tondo.

Una Chiesa che, invece, si è politicizzata e ha perso smalto vanificando l’Enciclica di Leone XIII Rerum Novarum con il progressista Concilio Vaticano II e il conseguente appiattimento sulla società moderna con tutte le sue falle di cui ci lamentiamo, ma non facendo nulla per porvi rimedio.

Un progresso sociale sfociato nel materialismo e che ha reso la Chiesa un organo solo squisitamente politico e non più un promotore di Fede al servizio dell’uomo per raggiungere l’Eterno, ma solo di un ideale al servizio del progresso piegandosi ad esso.

Il risultato è lampante con papa Francesco, nome francescano e atteggiamento gesuitico.

Un ossimoro.

Una Chiesa che ha perso la bussola e si è adeguata alla società e non viceversa dimenticando che il Vangelo rimane un insuperabile testo rivoluzionario nella ricerca dell’amore per il prossimo e con una specifica parte politica che – solo adesso – ammira le prese di posizione di Santa Romana Chiesa e delle sue incursioni negli affari politici de noantri laddove ha sempre, invece, auspicato la laicità dello Stato italiano stesso finché la Chiesa diceva cose contrarie al progresso.

Con Ratzinger è morta anche la Chiesa e si affaccia un quadro desolante: la perdita di una spiritualità meditata a favore del materialismo.

Chiese vuote e pance semi piene.

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